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Non-Psicologica
 


L'aggressività

L'aggressività è un agire. Ogni azione è il derivato di una catena emotiva. L'aggressività, nella realtà del nostro vissuto, si divide in due grandi condizioni: l'aggressività vera e propria e l'aggressione come azione espressa. Come è noto, in natura l'individuo non ha una seconda chance e nel nostro sistema istintuale, pertanto, non è prevista quella condizione nella quale l'individuo può temporeggiare; questo fa nascere la convinzione che la prima impressione è quella che conta. Quando parliamo di aggressività, si intende quell'atteggiamento in cui l'individuo è molto attento e pronto a percepire, interpretare e reagire; nel comportamento quotidiano, questa è la normalità delle relazioni che conosciamo come attenzione, tensione, presenza, discussione, condivisione, ossia tutti quegli atteggiamenti dove l'individuo è fortissimamente attivo. Questi comportamenti “normali” sono un'aggressività “in potenza”, dove, se il rapporto con gli altri funziona in maniera regolare, non succede nulla, se invece si accendono degli attriti, l'individuo può tendere a sviluppare comportamenti aggressivamente più forti, cioè vari gradi di aggressione. Un rapido esempio esplicativo: il lettore che sta leggendo queste parole è in uno stato di attenzione molto elevato; pertanto, la sua aggressività è elevata. Se leggendo qualche frase egli venisse ferito, potrebbe arrabbiarsi e commutare l'aggressività in aggressione con la chiusura del sito e qualche commento magari a voce alta.

L'aggressività, essendo attivata da certi stati emotivi, è a essi subordinata e ne è l'espressione diretta. Nella nostra cultura, essa è stata additata come un fenomeno negativo in modo del tutto superficiale, non percependo che è uno strumento di primaria importanza nelle relazioni umane e non solo. L'aggressività è un fenomeno istintuale e come tale governa la maggior parte dei nostri atteggiamenti e noi ne siamo inconsapevoli. Quando l'aggressività si esprime come aggressione, paradossalmente sta succedendo qualcosa di imprevisto; secondo il nostro sistema istintuale, l'individuo aggredisce o per bisogno o per difesa. Le due definizioni possono tendere a confondersi: per bisogno si può pensare alla fame, al territorio o necessità analoghe; per difesa, invece, si intende quello stato dove l'individuo si trova in difficoltà. In un dato momento, l'individuo si sente nell'impossibilità di difendersi, nello stato di essere incompreso, nella condizione di essere incastrato e perciò, riassumendo, in una condizione di impotenza emotiva, che vede amplificarsi la paura e l'unico comportamento risolutivo è l'aggressione agita (che sia essa verbale o fisica). In pratica, l'aggressione deriva sempre da uno stato emotivo di depotenziamento, sia essa vissuta a livello individuale o a livello collettivo. Spesso, infatti, per legittimare l'espressione attiva della propria aggressività, l'individuo necessita e cerca l'immedesimazione in un gruppo o in un simbolo riconosciuto collettivamente, negativo o positivo che sia, in modo da giustificare i propri comportamenti. Oggi, nell'era dell'educazione di massa, l'aggressività come presenza e quella agita come aggressione si arricchiscono di nuovi dinamismi, a cominciare da una forte evoluzione del senso di competizione alle conflittualità legate alla competenza cognitiva. Assistiamo, così, al definirsi di un'enorme diffusione di fenomeni ansiosi dove l'aggressività è una delle componenti del conflitto ansiogeno.



Gli stereotipi dell'aggressività

Tutti siamo abituati a identificare le attività tendenti alla violenza come “aggressività”. Questa condizione del comportamento viene sistematicamente posta tra gli atteggiamenti negativi, viene colpevolizzata come sbagliata e quando siamo attori di questo comportamento si attiva immediatamente un senso di colpa per le azioni svolte. Questa visione rappresenta lo stereotipo collettivo di una cultura che pone la paura della violenza al di sopra della comprensione delle dinamiche che conducono alla sua manifestazione. Dobbiamo notare che ogni individuo, prima di arrivare alla manifestazione violenta, ha accumulato una serie di frustrazioni, repressioni e/o esperienze devianti; frequentemente, si pone l'attenzione solo sul risultato finale, tralasciando la catena di comportamenti e di fatti che l'ha prodotto. Nel sistema culturale occidentale, vige un atteggiamento intellettuale che focalizza in chiave dualistica i seguenti opposti: bene/male, positivo/negativo, giusto/sbagliato, problema/soluzione. In quest'ultima coppia, viene a definirsi e a determinarsi la modalità di comprensione e reazione all'aggressività che turba l'equilibrio di una persona; pertanto, l'aggressività viene socialmente interpretata come il “problema” e sorge impellente la necessità di una sua “soluzione”. Nella quotidianità, assistiamo a varie rappresentazioni dell'aggressività: quelle di cronaca, quelle personali sul lavoro, quelle conflittuali a casa, quelle caratteriali, quelle mediatiche e quelle nella maleducazione nel rapporto con estranei. Tutte queste manifestazioni dell'aggressività trovano una diversa collocazione nella nostra percezione e valutazione valoriale. Nella comprensione della strutturazione delle nostre valutazioni valoriali, intervengono una serie di attività proiettive che provocano differenze dal piano individuale a quello collettivo. Accade quindi che le attività aggressive che si svolgono all'interno delle relazioni note (amici, colleghi, compagni, parenti) producono un'attività di un certo tipo (dispiacere, senso di colpa, senso di inadeguatezza), mentre quelle che si manifestano in relazioni con estranei producono una reazione di difesa/condanna di tipo morale basata sui valori relazionali di educazione culturalmente condivisi. In questo panorama, l'aggressività si veste di abiti profondamente diversi e genera una percezione individuale dell'attivazione della paura condizionata dall'ambiente di riferimento e dal suo stereotipo. I diversi abiti corrispondono al grado di accettabilità del segnale aggressivo e la conseguente necessità di contrapporre misure e precauzioni.

Aggressione mimetica e indiretta

L'aggressione mimetica e indiretta si configura come uno sfogo indirizzato su un oggetto/persona/situazione al posto di essere esercitato direttamente sulla persona che ha attivato il conflitto. Questo processo di traslazione è inconsapevole e può avvenire per due condizioni: per paura della reazione della persona che ha attivato il conflitto, o per conclamata inefficacia dell'atto aggressivo diretto a tale persona. Se da un lato l'atto aggressivo indiretto, non essendo rivolto contro la persona interessata, non rende l'aggressore accusabile, dall'altro lato la persona che assiste riceve comunque una forte sollecitazione emozionale. L'aggressione mimetica e indiretta è l'espressione di una conflittualità non focalizzata ed esprime la difficoltà dell'aggressore rispetto alla relazione con la persona che ha attivato il conflitto. L'aggressore proietta sulla persona coinvolta la motivazione del conflitto, ma, nel contempo, non trova sufficienti argomenti per direzionare il proprio sfogo. Dobbiamo quindi considerare che, in questa configurazione, gli atti aggressivi indiretti sono una metacomunicazione di un disagio preciso anche se l'aggressore non lo sa spiegare. Una seconda condizione riguarda l'uso seduttivo delle attività aggressive. Questa modalità appartiene a chi è stato addestrato in base a un modello emotivo di stampo vittimistico e contestualmente aggressivo. In questo quadro, le azioni aggressive indirette vanno considerate come una modalità comunicativa immatura e strategica, nell'ottica di ottenere attenzioni e affettività.

Riassumendo, il segnale aggressivo mimetico e indiretto viene agito perché è limitatamente accusabile di violenza, in quanto è travestito da un comportamento da un lato palesemente scorretto, ma dall'altro formalmente innocuo verso le persone. Di fatto, invece, proprio per la proprietà metacomunicativa delle emozioni relazionali umane, questo atto aggressivo mantiene comunque una seconda destinazione che è orientata verso la persona e produce un forte disagio. Questo quadro ci fa comprendere che, nella visione stereotipa dell'aggressività, possiamo distinguere la parte potenziale dell'emozionalità che comunica un disagio dalla parte agita che diventa un'aggressione con almeno due destinatari, uno materiale e/o sublimale, e l'altro reale e personale ma mimetizzato.

Aggressione diretta di estranei

Nel rapporto con gli estranei, basta la presenza per elevare rapidamente la nostra soglia di attenzione, fino a livelli insospettabili. Nell'interazione con estranei, ambedue le persone si trovano a vivere la medesima condizione di risposta emozionale alla rispettiva presenza. Diventa interessante notare che, quando accade che una persona ne aggredisce un'altra, se escludiamo una situazione di sorpresa (per esempio, l'aggressione alle spalle), gli individui coinvolti risultano comunque parte attiva nella dinamica dell'aggressione. A questo punto è necessario fissare delle distinzioni: quando parliamo dell'aggressione, la mente si orienta nella focalizzazione di chi è vittima e di chi è colpevole, di chi ha ragione e di chi ha torto. Tuttavia, se escludiamo l'interpretazione morale (o, peggio ancora, moralistica) di un evento di aggressione, potremo invece comprendere quale è il livello di interazione reale tra le due parti, che sono sempre e comunque coinvolte. La vittima si trova a subire un'ingiustizia e il colpevole agisce un sopruso; questa condizione trascende il senso dell'atto reale, dove, che si parli di stupro, omicidio o rapina, ciò che andremo a comprendere riguarda la specifica e individuale reazione agli eventi da ambo i lati. In questo panorama, la valutazione di tipo collettivo non muta e resta validamente attiva nella definizione morale di bene/male.

Il sostanziale approfondimento che andiamo a produrre non riguarda quindi l'assetto di giudizio rispetto alla legalità delle azioni, ma riguarda il dinamismo interattivo che due o più persone agiscono realmente in uno scenario di aggressione esplicita. Ovviamente, una lettura superficiale potrebbe indurre a pensare che cambi l'equilibrio morale del giudizio su chi è innocente e chi è colpevole. Al contrario, andremo a esporre elementi che in dettaglio amplieranno il panorama della comprensione di come nascono, si strutturano e si sviluppano le aggressioni. Effettivamente, in alcune condizioni, si potrebbero verificare ribaltamenti delle parti, dove l'apparente colpevole sta in realtà reagendo a un segnale della presunta vittima, che obbliga l'attore dell'aggressione a quel determinato atteggiamento. Andiamo a identificare la morfologia primaria dell'aggressione diretta; l'individuo che si pone nella posizione di aggredirne un altro, in qualche modo, ha identificato o focalizzato se stesso come portatore di una qualche forma di giustizia, nella quale, però, egli stesso è in uno stato di incomprensione da parte dell'entourage. Egli si percepisce dunque, anche se inconsapevolmente, come vittima di un sistema che lo limita nella relazione e nelle possibilità.

A questo punto, richiamiamo il dinamismo primario già esposto delle emozioni primarie: la curiosità evolutiva e la paura. Ricordiamo che queste due emozioni operano parallelamente e continuamente, determinando la tipologia dell'interazione dell'individuo verso l'ambiente e le persone, nonché le caratteristiche dell'attività proiettiva. Nella variazione continuativa nell'equilibrio tra queste due emozioni, di volta in volta dominerà l'una o l'altra; così come quando domina la curiosità evolutiva l'individuo vive con soddisfazione le proprie esperienze e il relativo apprendimento, quando, al contrario, domina la paura, l'individuo si trova a poter adottare quelle condizioni operative ancestralmente legate all'ambientazione e alla sopravvivenza. Quando un individuo, umano o animale, si trova in questo stato di paura, nell'ottica della priorità della propria autoconservazione, percepisce come uniche alternative la fuga/difesa o l'attacco. Questa dualità primaria si veste, nell'area del Superego, di coerenti proiezioni comportamentali e linguistiche che legittimano la raffigurazione dell'individuo nella condizione di paura come vittima/oggetto di incomprensione/ingiustizia. Quando parliamo di proiezioni, intendiamo un sistema che viene attivato da uno stato emotivo specifico, che deve, per propria struttura, diventare comportamento. Se abbiamo uno stato d'animo particolare, la domanda che sorge spontanea è: che cosa fare? La scelta del “che cosa fare” è disponibile nell'area esperienziale della propria memoria.

Il risultato è che l'attività proiettiva, nell'interpretare la situazione e nel riesumare le possibilità di azioni coerenti e compatibili, sarà limitata all'ampiezza della propria esperienza vissuta. L'interpretazione e la reazione sono totalmente subordinate allo stato emotivo che determina che tipo di risorse individuare per agire correttamente. Comprendiamo che le risorse attinte sono quindi coerenti con lo stato emotivo (con le relative proiezioni) e non con la realtà e la sua eventuale correttezza. Nell'ambito dei comportamenti sociali/interattivi, il fattore “correttezza” ricopre un ruolo molto importante, in quanto completa il quadro di legittimità dell'azione. Infatti, esso appartiene all'area morale definita nel Superego e che, in questo, si definirà come comportamento agito del quale l'individuo può giustificare le proprie azioni. A questo punto, il bivio primario tra fuga e attacco diventa una realtà percorribile e di cui l'individuo ha delle risposte operative concrete, anche dotate di legittimazione morale ed etica.

Ma che cosa determina l'insorgere del comportamento di aggressione? Quando in un individuo domina la curiosità evolutiva, il suo sistema percettivo è aperto verso un ampliamento della propria esperienzialità, al di là del limite-guida-ostacolo della morale; quando invece domina l'emozione primaria della paura, non vi è disponibilità di ampliamento dell'esperienza, poiché si configura uno stato di emergenza/allarme, per cui si attinge perentoriamente alla propria memoria già consolidata. Questa sorta di barriera all'apprendimento blocca l'individuo in una sorta di impotenza evolutiva, nel vincolo normativo e linguistico del comportamento già consolidato nella memoria per mezzo dell'efficacia del giudizio morale; la persona sarà quindi portata ad agire un determinato comportamento che è stato ritenuto efficace, ma che non è altro che la riproposizione del medesimo dinamismo emotivo. In questo senso, l'individuo prova una forte frustrazione poiché intuisce la propria impotenza a evolversi (qui scatta la cosiddetta coazione a ripetere), aggravata dall'accumulo della ripetizione. Quando sosteniamo che un individuo agisce quasi automaticamente l'azione che è stata ritenuta efficace non intendiamo quest'efficacia nell'ottica del successo positivo, ma nell'ambito di ripetizione del proprio modello e del bagaglio esperienziale. Questa scelta e la relativa azione agita diventano quindi efficaci a prescindere dalla possibilità che esse possano risultare fallimentari e dolorose, per il fatto che esse costituiscono l'unica risorsa possibile in quanto disponibile. Ricordiamo che non potremmo compiere azioni difensive al di fuori del panorama esperito nella vita reale.

Abbiamo ora completato un quadro dove capiamo che nel bivio tra attacco e fuga il denominatore comune è lo stato di difesa. Per esempio, è facile comprendere come un rapinatore agisce un'aggressione armata in quanto egli si raffigura vittima di un sistema che non gli permette di acquisire il denaro nelle modalità legittime che, in più, lo pongono nell'impossibilità di avere successo, per l'impellenza del bisogno del denaro. Egli focalizza sullo stato di bene collettivo “denaro” il peso del proprio fallimento esistenziale e individuale, che lo consacra come vittima del sistema.

Aggressività passiva e aggressività attiva

Nel quadro delle attività svolte nell'area dell'aggressività, vi sono delle condizioni che trascendono la logica diretta dell'aggressività come suggerita negli stereotipi. Nei vari livelli dell'agire dell'aggressività, possiamo osservare che l'effetto funzionale che essa produce consiste in una determinata pressione relazionale sull'interlocutore. Possiamo quindi focalizzare nella pressione emotiva sull'interlocutore un indicatore del livello di aggressività agita. Questo indicatore ci offre l'opportunità di comprendere dinamiche profonde che, altrimenti, nella tradizionale visione dell'aggressività come azione esplicita, esse non potrebbero essere colte. Nei comportamenti umani, non vi è solamente l'aggressività diretta ed esplicita, ma anche una modalità di esercitare pressione sull'interlocutore e/o sull'entourage basata sulla negazione della relazionalità, che potremmo definire “aggressività passiva”. Il meccanismo della negazione della relazionalità agisce sulla negazione dei feedback relazionali e sulle condizioni morali ed etiche degli stereotipi stessi dell'aggressività, generando quindi una pressione emotiva capace di indurre pesanti condizioni comportamentali. Comprendiamo che una postura del comportamento basata sulla passività relazionale è in grado di esercitare una pressione significativa sull'altro, definendosi quindi funzionalmente con effetti analoghi se non superiori all'aggressione esplicita. In ogni caso, non dobbiamo dimenticare che il livello di attenzione nel dinamismo relazionale dell'aggressività risulta analogo sia che si tratti della sua versione esplicita o di quella passiva. La fondamentale differenza tra le due modalità sta nel tipo di potere esercitato nella relazione. Nell'aggressività esplicita, la richiesta è, in qualche modo, palese, mentre nella passiva i contenuti attivano un sistema proiettivo del modello emotivo specifico del ricevente, che percepirà una pressione emozionale indiretta ma soprattutto autogena. L'attività dell'aggressione passiva accende quindi una reazione emotiva proiettiva. Quando un individuo avverte una pulsione che lo spinge ad aumentare la sua aggressività ma reprime questa stessa pulsione, il dinamismo dei metacomunicati della tensione e del disagio viene comunque agito. L'individuo che agisce l'aggressività passiva opera quindi un'inversione dei comunicati, reprimendo la pulsione, ma non può evitare il loro effetto relazionale come pressione esercitata comunque. In questo quadro, dobbiamo distinguere quando la repressione della pulsione avviene per un meccanismo negatorio automatico nel rifiutare la propria aggressività e il caso in cui tale repressione viene agita strategicamente in seguito a un determinato vissuto esperienziale per ottenere un determinato effetto con una potenza misurata. Nella condizione di negazione istantanea della pulsione, l'individuo agisce sotto l'effetto della propria morale, mentre nel caso di un uso strategico della negazione della pulsione, l'individuo esprime una maturata esperienza negli usi alternativi dell'aggressività diretta (anche nel caso in cui questo avvenga inconsapevolmente/spontaneamente).

Aggressione diretta tra i componenti dell'entourage

In questo paragrafo, andremo a comprendere le caratteristiche, le sfumature e i dettagli delle dinamiche relazionali dell'aggressione in una cerchia di persone che si conoscono. Definiamo separatamente l'entourage dall'ambiente familiare, poiché in quest'ultimo ci sono molte differenze comportamentali e relazionali. L'individuo, con l'entourage (che comprende colleghi di lavoro, amici, più o meno intimi, e conoscenti), si pone in un assetto che contiene delle posture emozionali che utilizzano copiosamente gli stereotipi e le competitività. L'aggressività e le aggressioni che avvengono in questo territorio hanno un carattere più raffinato e sofisticato rispetto a quelle che avvengono con gli estranei non inclusi nell'entourage, non fosse altro che per la frequenza, dove gli scambi, le condivisioni, le richieste e le conferme passano perlopiù attraverso schemi e stereotipi del comportamento.

Distinguiamo quindi la differenza tra gli schemi comportamentali e gli stereotipi comportamentali, dove troviamo che i primi sono fortemente personalizzati e legati alle singole persone dell'entourage, mentre i secondi sono strutture attinte dalla cultura della collettività esterna e utilizzati per la loro palese praticità nella comunicazione. Gli schemi sono arricchiti inoltre dall'apporto individuale dei significati e dei simboli iniettati dai modelli emozionali e relazionali di ciascun individuo, laddove gli stereotipi invece vengono adottati per la loro valenza universale e sono meno profondi nel livello di drammatizzazione. Gli stereotipi del comportamento vengono utilizzati come gli schemi comportamentali, ma, a differenza, essi sono meno intimi, meno privati e meno individuali. Il comportamento basato sullo stereotipo è rivolto verso la collettività in modo impersonale, dove il motore che attiva l'individuo nel bisogno di soddisfazione/valorizzazione si proietta nella dinamica del sociale. Gli stereotipi più frequentemente utilizzati nei dinamismi che conducono alle forme espresse dell'aggressività riguardano il conseguimento di un bene comune e il relativo esercizio del potere e/o della leadership. Un altro stereotipo riguarda le dinamiche della rappresentazione dell'amicizia e delle sue catene valoriali. Segue la solidarietà, con tutti i comportamenti sostanziati da ideologie di varia natura. La qualità è certamente un altro stereotipo in gioco; pur di ottenerla si instaurano infatti dinamiche competitive o sacrificali, che riguardano l'intersezione tra lo stereotipo (“fare meglio”) e uno schema individuale (“fare meglio degli altri”, “sacrificarsi per fare la cosa giusta o migliore”).

Abbiamo identificato quindi che l'entourage di una persona è composto di più livelli di coinvolgimento emozionale, dove le persone si separano in amici e conoscenti nella medesima rappresentazione dello stereotipo “amicizia”, che sia riconosciuto o meno. A differenza degli amici, i colleghi vivono in un'area dell'entourage dove il coinvolgimento è solo meno apparente, ma, al contrario, per molte ragioni, esso è assai più forte e importante. Infatti, sull'ambiente di lavoro l'individuo misura in concreto il proprio valore socialmente universale (che sia positivo/valorizzante o negativo/frustrante), vissuto e agito attraverso un dinamismo continuo di confronti e competizioni. È facile intuire come queste dinamiche sul lavoro siano più determinanti rispetto alle medesime agite nell'ambito dell'amicizia, questo perché, in quest'ultimo ambito, le soddisfazioni affettive e relazionali non godono della medesima priorità. Infatti, ogni individuo per il proprio ambito professionale/lavorativo è disposto a sacrificare o impegnare enormi energie che, al contrario, nell'ambito affettivo non vengono profuse. Nella costruzione del proprio ambiente professionale, l'individuo dimostra sempre una grandissima tolleranza e capacità di sopportare pressioni, carichi e sacrifici di grande volume; al contrario, nell'ambito della relazionalità affettiva dell'entourage la persona è in qualche modo più intransigente.

Nell'area degli affetti non familiari, la maggiore sensibilità determina una propensione reattiva superiore e una maggiore fragilità. Accade quindi che l'individuo è meno strutturato in atteggiamenti difensivi e risulta più vulnerabile. Paradossalmente, però, se esaminiamo la rottura di un'amicizia, vedremo che produce nel tempo degli strascichi minori rispetto, per esempio, alla perdita di posizione sul lavoro. Comprendiamo quindi che le dinamiche dell'aggressività e dell'aggressione nell'entourage hanno un effetto assai importante nella percezione di sé. Anche per quest'area dell'aggressione, ritroviamo, come sopra, la percezione nell'individuo aggressivo di essere la vittima di qualche ingiustizia, più o meno grave. Troviamo inoltre, frequentemente, che le condizioni che accendono l'aggressività sono attivate e sostanziate dal conseguimento di un bene comune (“è giusto così”, “è meglio per tutti se”), dove questo stereotipo si veste dei dinamismi relazionali del potere, dello sfogo d'ansia, della seduttività relazionale e di altre sfumature, nel riprodurre e conseguire la raffigurazione di sé come persona efficiente ma incompresa. Queste dinamiche pongono l'individuo, più o meno palesemente, sotto l'effetto di una negazione che egli percepisce e sulla base della quale raffigura se stesso come vittima di un'incomprensione. La condizione di vittima inconsapevole ancora una volta è il motore che attiva la componente esteriore dell'aggressività che diventerà aggressione. Che si parli di omicidio oppure semplicemente di un'aggressione passiva e silenziosa, il realismo dell'attività proiettiva diventa assoluto e l'individuo si sente legittimato nell'aggredire chi lo ha negato. Iniziamo ora ad analizzare e scrutare l'effettiva attività nelle dinamiche dell'aggressività e dell'aggressione nell'area dell'entourage.

Anzitutto, dobbiamo distinguere tre categorie dell'entourage: i colleghi di lavoro, gli amici/conoscenti non intimi e gli amici intimi. Per ognuna di queste categorie si attivano dinamismi differenti, come diverse saranno le reattività e i modi di agire l'aggressività. Dagli amici (sia intimi sia non) ci si aspetta una gratificazione funzionale; per quest'ultima intendiamo non necessariamente una soddisfazione positiva, in quanto può risultare funzionale anche un'umiliazione o un rifiuto, a seconda del modello emotivo e dell'esperienzialità del singolo individuo. La medesima aspettativa viene proiettata anche sui colleghi di lavoro, anche se l'ambito è ovviamente differente: sul posto di lavoro vengono misurate le competenze e le abilità professionali, laddove nella propria cerchia di amici si confronta il proprio valore umano e il proprio stile di vita, che è un insieme composto da schemi comportamentali, stereotipi e look. Dobbiamo notare come la propria professionalità è strettamente legata allo stile di vita, in una progettualità che implica la raffigurazione e il mantenimento di un certo status. Se nell'ambito professionale rispetto alle negazioni si resiste, poiché si pone come scopo il proprio successo futuro, nell'ambito delle amicizie non viene focalizzato alcun obiettivo che giustifichi la resistenza (tranne in alcuni casi, dove l'amicizia è solo la veste esteriore di un rapporto di interesse).

Questo avviene anche perché mentre nell'ambito lavorativo vi è il riconoscimento di una gerarchia reale, nell'ambito delle amicizie vi è un continuo confronto con la propria percezione di status sociale; viene così a instaurarsi una gerarchia mobile e proiettiva. Dato che nell'ambito professionale si è orientati verso il futuro, presunto migliore, si instaura la dinamica dell'eroismo, per cui ci si può sacrificare e negare in vista di uno scopo ben preciso. Nell'ambito delle amicizie domina invece la dimensione del presente (al massimo quella del passato, dato che la relazione si consolida nel tempo); l'unico timore è quello dell'isolamento, in quanto a quel punto non si avrebbe più quel pubblico come conferma della propria rappresentazione di status. Vi è una profonda differenza tra gli amici intimi e i semplici conoscenti: con i primi, infatti, è possibile confrontare e sviluppare il proprio modello emozionale, in un'ottica integrativa ed evolutiva, e la gerarchia, più o meno variabile, si fonda sull'autorevolezza reciprocamente conosciuta dagli individui coinvolti, che comprendono e rispettano i limiti relazionali. Diversamente, con i semplici conoscenti, ma anche con i colleghi di lavoro, si attua un continuo confronto sullo stile di vita e la dipendenza gerarchica si fonda sullo status o sul potere. Proprio perché in questi ultimi casi non si instaura una conoscenza reciproca se non superficiale, difficilmente verranno rispettati i limiti relazionali.

Abbiamo già visto che l'aggressività e l'aggressione sono rispettivamente il potenziale e l'agito. Questi due elementi, che potremmo inquadrare come incrementali, in quanto nella scala d'intensità si passa dall'aggressività all'aggressione, nel comportamento dell'azione assumeranno forme, significati e orientamenti che, pur non mutando la morfologia della loro genesi, possono indurre confusione nell'interpretazione dell'atto esteriore. Troviamo quindi grandi differenze di forma a seconda di quale modello emozionale stia alla base dell'identità dell'individuo. Ricordiamo che l'aggressività/aggressione può essere agita verso l'esterno (estroflessa) oppure rivolta verso se stessi (introflessa), con enormi variabili in gioco, abbracciando ambiti molto diversi che vanno dalla colpevolizzazione e conseguente somatizzazione alla violenza, dalla conflittualità incondizionata alla progettualità determinata. Quello che accomuna la tipologia dell'aggressività/aggressione estroflessa a quella introflessa è la percezione dell'individuo di essere vittima di un'ingiustizia di qualche tipo, la quale legittima la rabbia e le azioni di aggressione vera e propria, siano esse attive o passive. Al fine di comprendere meglio in che modi possono esternarsi aggressività e aggressione, utilizzeremo l'intersezione dei modelli emotivi relazionali con le tre categorie già individuate per l'entourage, mettendo in luce le differenze di reattività e atteggiamento.

Iniziamo dall'ambito lavorativo, dove i fattori in gioco sono la gerarchia, la progettualità della propria carriera/posizione (con i relativi compromessi) e il timore delle ripercussioni. Se un individuo viene negato/rifiutato/umiliato in questo ambito, e manifesta un'aggressività di tipo estroflesso, dovrà operare una sorta di contenimento e di deviazione della propria spinta aggressiva proprio per i fattori sopracitati. L'attività di reazione agli stimoli ricevuti è totalmente in funzione del sistema proiettivo, che determina l'interpretazione degli stimoli stessi, quanto siano umilianti, accettabili/inaccettabili, individua colpe/meriti e focalizza i pesi degli elementi limitanti (gerarchia, progettualità, ripercussioni) e la propria posizione nel sistema. Quindi, avviene che il livello di realismo dell'attività proiettiva determina la tipologia di reazione. Nel caso del sistema proiettivo che, per effetto di un modello emotivo, prevede l'estroflessione degli atti aggressivi con un certo grado di esplicitazione, abbiamo delle particolari condizioni nell'identità dell'individuo. La condizione più macroscopica facilmente osservabile è che la postura generale dell'atteggiamento emozionale della persona tende a essere proattiva e, conseguentemente, le proiezioni hanno un livello di realismo piuttosto elevato. Questo realismo è determinato dal fatto che per educazione l'individuo è abituato a non negare la relazionalità e, di conseguenza, ha collezionato una maggiore quantità di esperienze reali nell'ambito del meccanismo azione-reazione dell'aggressività.

Al contrario, come vedremo in seguito, un individuo addestrato a un'aggressività passiva, tenderà a sviluppare un minor numero di esperienze. Riassumendo, i modelli emotivi che prevedono l'estroflessione degli atti aggressivi determinano una maggiore esperienzialità intorno a questa tipologia di azioni, che permettono di avere una maggiore proprietà strumentale nell'uso dell'aggressione. Avendo vissuto maggiormente questa esperienza, questi individui tendono a usare strumentalmente il comportamento aggressivo, addirittura simulandolo funzionalmente, come per esempio nei casi di bullismo, dove l'attività dell'aggressione assume un intento preventivo nell'affermare se stessi sugli altri. Come possiamo intuire, l'aggressione del bullo si costruisce sulla paura di non essere riconosciuti come forti e coraggiosi e obbliga l'individuo a continuare a reiterare comportamenti al fine di ottenere questi riconoscimenti. In questo senso, l'aggressione diviene un'attività preventiva rispetto alla prevista ipotesi che l'entourage non riconosca il proprio stratus. Tornando all'ambiente del lavoro, l'individuo che vive l'aggressività/aggressione in maniera estroflessa tende a vivere l'ampiezza delle variabili attorno al dinamismo vittima-reazione-aggressione non solo come reazione a fatti già avvenuti che lo pongono come vittima, ma anche come prevenzione di fatti che egli può prevedere. Come abbiamo già visto nella descrizione dei modelli emotivi relazionali, l'aggressività/aggressione estroflessa si presenta, nello specifico, nel modello emotivo conflittuale e nel modello emotivo valorizzante.

In ogni caso, nell'ambito dell'aggressività/aggressione estroflessa, l'individuo che percepisce se stesso come vittima di un'ingiustizia, produrrà una pressione verso l'esterno utilizzando comportamenti stereotipi come la lamentela più o meno rabbiosa, che esercita una pressione emotiva significativa e che genera una configurazione morale intorno alla situazione. Ciò che differenzia la strumentalità dell'aggressività/aggressione di questi due modelli è la tipologia di funzionalità.

Nel caso del modello emotivo conflittuale, la funzionalità del dinamismo dell'aggressione è il mantenimento dello status percepito, senza dinamismi emotivamente evolutivi. Quindi, l'individuo con matrice conflittuale agirà privo di una consapevolezza relazionale nel vincolo di un'attività proiettiva distorta che ne impedisce qualsiasi attività pragmatica. Essendo l'individuo marcatamente negatorio rispetto all'entourage, la sua attività di aggressione determina sistematicamente una reazione a sua volta negatoria da parte dell'entourage. Questa condizione di reciprocità determina l'impossibilità evolutiva nell'esperienza emozionale. Riassumendo, l'individuo con matrice conflittuale è addestrato da molta esperienza vissuta, ma, essendo la sua percezione distorta da una negatorietà particolare, egli reitera attraverso la negazione la propria sofferenza, che viene confermata dal feedback dell'entourage, mantenendo lo status originale (coazione a ripetere, profezia autoavverante).

Nel caso del modello emotivo valorizzante, diversamente dal precedente, la negatorietà non è dominante. La morfologia dei comportamenti aggressivi assume qui un carattere dove le esperienzialità diventano strumenti interattivi. L'esperienza accumulata determina la capacità dell'individuo di operare in chiave più progettuale l'attività di aggressività/aggressione. L'individuo agisce e finalizza i propri comportamenti senza reprimerne le dinamiche emozionali ma modellando il senso e l'efficacia di queste, con un significativo realismo nella previsione dei feedback. L'aspetto esteriore dei comportamenti stereotipi può sembrare analogo al modello precedente, ma si differenzia nella determinazione del destinatario dell'aggressione, del suo scenario, del grado di tempestività (preventiva o reattiva) e delle modalità con cui l'attività viene agita. Avviene che l'individuo con matrice valorizzante è in grado di funzionalizzare la propria risposta emotiva distinguendo le diverse situazioni, determinando l'evoluzione della propria esperienzialità e, conseguentemente, l'arricchimento della propria consapevolezza emotiva.

Nel caso in cui la morfologia dei dinamismi dell'aggressività/aggressione è di tipo introflesso, abbiamo uno sviluppo dell'emozionalità e della conseguente attività proiettiva e comunicativa con forme e implicazioni assai diverse rispetto alle tipologie precedenti. Ogni individuo, quando percepisce se stesso come vittima, tenderà ad attivare i processi dell'aggressività/aggressione sulla base del proprio modello emotivo e degli stereotipi conseguenti. La condizione di modello a orientamento introflesso dell'aggressività/aggressione, come abbiamo visto, si avvale di una pesante struttura morale negatoria rispetto alle percezioni emozionali. La percezione di sé come vittima ha due componenti, una consapevole ed esplicita, che riguarda gli argomenti e i fatti esteriori, e una inconsapevole, che riguarda la percezione di sé e la propria posizione all'interno dell'entourage. In questa zona inconsapevole, l'individuo si trova a dover fare fronte ad alcune domande, quali: “e se la persona che mi ha negato/rifiutato/umiliato avesse ragione?”, “e se fossi io a sbagliare quello che penso/faccio?”, “e se io non fossi all'altezza della situazione?”. Queste intime domande, non formulate se non a livello intuitivo e implicito, determinano la necessità di posizionarsi rispetto a una graduazione di tipo morale, dove l'individuo si sente obbligato a definirsi dal lato del giusto o dal lato dello sbagliato. Risulterà ovvio che un individuo, che vive una postura emozionale dove la sua percezione focalizza immediatamente se stesso come “eventualmente sbagliato”, è già orientato a colpevolizzarsi e a focalizzare la paura di sbagliare.

Quest'ultima va collocata in un panorama di percezioni proiettive dove la persona percepisce una molteplicità di feedback, di cui la maggior parte impegnati a verificare e confermare come certezza la propria ipotesi di avere sbagliato e di essere inadeguati. L'associazione “errore” ed “essere identitariamente sbagliati” è un automatismo di cui non ci si rende conto. Quando un individuo percepisce l'ipotesi o i segnali della propria inadeguatezza, scatta un repentino aumento dei dinamismi della paura, con il conseguente aumento del volume di attenzione. Questa attività, ad alto livello di aggressività latente, si ripartisce in diverse aree della relazione, cercando segnali e feedback che confermino o smentiscano l'inadeguatezza. Nella condizione di un modello con aggressività/aggressione introflessa, le ricerche sono paradossalmente orientate alla conferma della propria inadeguatezza, anche se esteriormente e formalmente apparirebbe il contrario. Troviamo almeno due aree dell'attività proiettiva orientate una nel percepire/verificare effettivamente il realismo della propria condizione di vittima, l'altra, similmente alla prima, nel percepire/verificare la propria condizione di vittima, ma in un panorama più universale che situazionale. Quest'ultima zona è particolarmente importante nei dinamismi della rabbia e dell'aggressività/aggressione, in quanto assume un peso speciale nella struttura di collocazione morale dei fatti e delle relative percezioni.

Percepire se stessi come abitualmente sfortunati, o simili rappresentazioni, porta a un'universalizzazione di uno stato emotivo, che si separa dal fatto/evento scatenante, per spostarsi su un livello più astratto e simbolico. L'azione scatenante perde immediatamente di importanza e, paradossalmente, assume il contorno di simbolo. Come già osservato, il simbolo è un contenuto proiettivo con una fortissima capacità di evocazione emozionale. L'individuo universalmente sfortunato è vittima degli eventi e, naturalmente, focalizzerà gli “eventi” come problema a cui dare la più immediata risposta di soluzione possibile. Alla domanda “perché proprio a me?” la risposta non si concretizza come localmente legata alla situazione attivante del problema, ma in una prospettiva generale dove la soluzione, se non soddisfa in modo radicale la risposta al problema, risulta completamente inutile. L'individuo si esaspera nella percezione di sé come vittima estesa e, a seguito di ciò, cerca, vorrebbe, esige una risposta definitiva che faccia terminare il problema. Egli arriva sistematicamente a produrre rappresentazioni astratte di mondi non realizzati, che alimentano la drammatizzazione del problema stesso.

La componente morale, che la persona utilizza per trovare un orientamento nell'interpretare e nel cercare soluzioni, diventa un reticolo che da un lato permette valutazioni etiche delle proprie scelte, dall'altro subordina la posizione etica delle proprie scelte a quella delle scelte altrui. È facilmente intuibile che, essendo le valutazioni sulle scelte altrui il risultato di un'attività proiettiva fortemente astratta, l'individuo si trova sofisticamente a produrre il proprio disorientamento. Quest'ultimo non può che aumentare il bisogno di risposte, poiché l'individuo si sente sempre più confuso. La conseguenza è un ulteriore aumento dell'attività valutativa propria della moralizzazione, in un processo dove si cerca di assolversi senza possibilità di appello. In questo quadro, dove la persona soffre della confusione su chi stia dal lato giusto e chi stia dal lato sbagliato, nasce l'impellenza della definitività nel giudizio di tale processo. Di conseguenza, avviene la repressione e la demotivazione rispetto alle attività aggressivo-reattive della relazionalità.

Nel caso del modello emotivo vittimistico, l'individuo focalizza inconsapevolmente la generale visione di sé come vittima impotente. Come abbiamo visto, in questo modello emotivo, l'educazione/addestramento dell'individuo ha prodotto una morfologia dove la visione del mondo e di se stessi si caratterizza attraverso un continuo compatimento, dove emerge marcatamente la drammatizzazione più o meno elevata delle cose che non funzionano. L'individuo con questo modello esprime eminentemente considerazioni e valutazioni rispetto a qualcosa che non funziona, che non va bene, che fa soffrire, e il relativo corollario di lamentele rispetto alle soluzioni mai adottate. In questo tipo di individuo, l'aggressività/aggressione è sublimata direttamente verso la condivisione analitica/critica in un continuo raffronto con l'entourage. L'individuo impegna la gran parte delle proprie risorse nel continuo confrontarsi e cogliere cosa c'è di giusto e sbagliato nelle attività e nei comportamenti altrui, nella costante ricerca proiettiva di quanto gli altri abbiano fortune che non sfruttano.

Per l'individuo con modello vittimistico, la percezione del merito non si attiva, se non raramente, nelle valutazioni di tipo positivo, mentre è particolarmente attiva nelle condizioni di tipo punitivo o screditante, dove l'esito sfortunato di qualcosa verrà giudicato come naturale conseguenza. Questi individui vivono una vita che si può riassumere in un adagio popolare: “siamo in una valle di lacrime”, e quindi improntano la propria condotta e le proprie scelte tenendo ben presente l'impossibilità e l'impotenza rispetto alla felicità. Pur considerando che la felicità nella realtà quotidiana è un frammento istantaneo e non uno stato costante, la sua concezione diviene per questo tipo di modello un'astrazione tanto importante quanto irraggiungibile. Questa mancanza o impossibilità del conseguimento della felicità alimenta la condizione vittimistica, che, nella “valle di lacrime”, legittima l'impossibilità del conseguimento stesso, che struttura di conseguenza la commiserazione di sé come comportamento costante. L'attività di percezione negatoria/vittimistica risulta, tutto sommato, essere un processo che permea in modo omogeneo l'identità.

Nel caso del modello emotivo seduttivo, abbiamo, similmente al modello vittimistico, una grande attività valutativa, ma, a differenza del precedente, la spinta rivolta a trovare le risposte viene orientata in dinamismi di tipo seduttivo invece che commiserativo. L'individuo, nei rapporti interpersonali, ha il bisogno di rispondere alla domanda intorno alla propria collocazione valoriale, all'interno della relazione locale. Come abbiamo visto anche nei casi precedenti, a questo scopo vengono impiegate ingenti risorse di attenzione e comportamenti per percepire valide risposte a queste esigenze. Queste risorse e comportamenti naturalmente diventano parte attiva nella relazionalità in atto, generando un condizionamento e orientando verso di sé le attenzioni necessarie a soddisfare le esigenze. Troviamo, quindi, l'attivarsi di comportamenti pre-focalizzati, nell'intento, attraverso la richiesta di attenzioni, di conseguire/consolidare la propria posizione nella relazionalità. Questo bisogno si sviluppa sulla spinta di un motore sotterraneo e inconsapevole, che agisce la compensazione di una lacuna identitaria (difficoltà nel percepire se stessi come validi, appropriati, all'altezza).

Questo stato lacunoso porta l'individuo ad agire e a confrontarsi su più livelli, poiché la difficoltà a percepire la propria posizione nella relazionalità si esprime a sua volta su più livelli. Le richieste di attenzioni presentano un duplice livello di intenti, uno esplicito e consapevole, che corrisponde alla conferma del proprio valore (richiesta “valorizzante” basata però su stereotipi), e uno implicito e inconsapevole, che è in realtà orientato a ottenere la sconferma stessa del proprio valore (sconferma non basata su stereotipi e quindi non classificabile). Il panorama di questo stato, palesemente contraddittorio, è costruito su una sofisticata rete di meta-segnali, dove troviamo, nella parte valorizzante ed esplicita un grande uso di stereotipi e, qualora vi siano condizioni di tipo negativo o negatorio, la persona tende a focalizzare e ribaltare verso un orientamento positivo ciò che non lo è. L'individuo ha quindi sempre la risposta pronta, a legittimare e a giustificare l'evento.

Avviene dunque che la persona vive una doppia condizione, una nella quale la sua necessità è sostenere un'immagine di sé come positiva, valida, efficiente, mentre l'altra condizione è che la persona si “sente” che non è mai veramente all'altezza del compito. Questa zona sotterranea della percezione di sé è il vero e potente motore di tutti i comportamenti. Potremmo definire che la grande attività di richiesta di attenzioni e conferme sia la naturale compensazione di uno stato più profondo di perenne inadeguatezza. L'individuo viaggia su un binario di continuo bisogno di riaffermare se stesso, la correttezza delle proprie scelte, del proprio modo di pensare, di esprimersi, di essere ed apparire. Per meglio comprendere questo duplice binario, analizzeremo in dettaglio una sequenza tipica rispetto a un evento. Prendiamo per esempio, rispetto all'ambito lavorativo, una situazione di negazione/rifiuto/umiliazione, più o meno intensa, che possiamo rappresentare come una critica del proprio superiore rispetto a una propria proposta. L'individuo con matrice seduttiva, agirà come maschera e livello consapevole di seduttività una serie di stereotipi volti a dimostrare la positività della negatività della situazione, ossia, per dirla con un'espressione gergale, “prendiamo il lato positivo”.

Seguendo questa pista del duplice binario, l'individuo si impegnerà a dimostrare che va tutto bene lo stesso, nell'ottica del mantenimento del proprio status e look. Contemporaneamente, a livello implicito e inconsapevole, l'individuo adotterà rispetto a questa negazione subita una serie di giustificazioni compensative nei confronti della propria visione interiore negativa, che si cerca di mascherare e legittimare attraverso l'uso stesso degli stereotipi. In realtà, l'individuo pone come problematica la ricerca del proprio valore, ma, proprio perché non può ammettere in modo esplicito questo bisogno, utilizza un travestimento (primo tra tutti lo stereotipo della positività e dell'impegno), che in realtà gli impedisce di riconoscere la propria identità. Ogni individuo, ovviamente, ha una propria soglia “di dolore”; questo significa che la percezione proiettiva di una frustrazione rispetto a una critica dipende da una misura specifica e individuale. Se un appunto da parte di un individuo dell'entourage non supera questa soglia, potrebbe non intervenire questo dinamismo e non produrre alcun effetto significante.

Aggressività del potere familiare

A differenza delle dinamiche che si attivano nell'entourage, l'aggressività che si sviluppa all'interno del nucleo familiare riveste un ruolo di fondamento del modello emotivo stesso. Infatti, questo è il luogo dove si formano e si costituiscono i vari gradi dell'espressività e il trasferimento della scala valoriale rispetto ai comportamenti dell'aggressività. Come abbiamo trattato nella genealogia del modello emotivo, il flusso di dinamiche emozionali parte dai genitori e confluisce nei figli, definendo quella precisa mappa nella quale troviamo anche la sfera funzionale dell'aggressività. A differenza degli altri ambiti, nella relazionalità della sfera familiare tutti i comportamenti assumono un carattere profondamente intimo e automatico, in quanto in quest'area il livello di conoscenza e profondità dei dettagli comunicativi/espressivi delle relazioni viene continuamente elaborato e sviluppato. Nella sfera familiare, si instaurano tutti quei dinamismi e automatismi che caratterizzano il modello emotivo stesso e le funzionalità proiettive che l'individuo attuerà anche negli altri ambiti relazionali esterni alla famiglia. Le funzionalità dell'aggressività in quest'area sono ancora più pragmatiche rispetto alle precedenti, in quanto ogni singola sfumatura del comunicato e delle intenzioni dei membri della famiglia è specificatamente finalizzata a uno scopo e, soprattutto, i figli sono interamente ricettivi ad assorbire in toto ogni dettaglio emotivo e del comportamento.

Nella funzionalità primaria che vede i genitori come emettitori e i figli come ricevitori, ogni comportamento assume un significato assai diverso nelle rispettive posizioni. Dobbiamo considerare infatti che, mentre il genitore che adotta un comportamento detiene un dato livello esperienziale intorno a quel comportamento, il figlio, al contrario, non può ancora avere sviluppato un analogo livello esperienziale, determinando un'antitetica percezione del significato del comportamento e della relativa attivazione emozionale. In altre parole, la struttura comunicativa, che per il genitore è funzionale all'educazione, per il figlio risulta un esercizio del potere, anche se non percepito nella sua forma coercitiva. Il figlio è spontaneamente indotto ad assorbire quanto proposto e, non avendo ancora maturato una propria identità autonoma, si subordina al comportamento del genitore, considerandolo assoluto. Per il bambino, i fatti e le esperienze rappresentano sempre una novità, anche nel caso in cui essi vengano ripetuti, in quanto ci sono comunque da sviluppare una serie di variabili esperienziali. Proprio in questa direzione, la guida genitoriale è l'orientamento primario, rispetto al quale il figlio non ha alternative; per questa condizione egli assolutizza come univoci i comportamenti e le dinamiche emotive dei familiari.

Questa speciale condizione di subordinazione vede configurarsi diverse affermazioni del potere, sia esso funzionale al trasferimento del modello emotivo sia nella sua accezione coercitiva e, in questo quadro, i dinamismi dell'aggressività assumono un carattere comunicativo fondamentale. Il sistema relazionale familiare ha nell'aggressività, in tutta la sua espressione scalare (dalla semplice attenzione fino all'aggressione diretta), un potente veicolo di scambio. La comunicazione, nelle sue forme espresse e non verbali, utilizza i vari livelli dell'aggressività come rafforzativo delle asserzioni e delle intenzioni. In altre parole, il comunicato diventa importante o meno a seconda del livello di aggressività utilizzato nell'esprimersi. Analogamente, chi comunica utilizza la percezione dell'aggressività dell'interlocutore per interpretare il livello di comprensione rispetto alla comunicazione effettuata, come feedback dell'efficacia del proprio modo di comunicare. Possiamo quindi comprendere che l'aggressività diviene parte integrante del modo di comunicare e, contemporaneamente, fondamento nell'interpretazione del feedback. Nel dinamismo relazionale, il livello di attenzione spesso diviene una sorta di merce di scambio, dove chi comunica chiede la conferma/feedback a chi ascolta, il quale, a sua volta, ha il potere di negare il feedback stesso, determinando una significativa mutazione dei dinamismi relazionali. Quando ciò avviene, si verifica una speciale condizione, che vede l'attore del comunicato assoggettarsi nel bisogno di un feedback e concedere il potere relazionale al destinatario.

Questa situazione determina la necessità di colui che comunica di elevare ulteriormente la propria pressione aggressiva, al fine di ottenere un appropriato feedback, fino ad arrivare all'aggressione diretta. Riassumendo, il valore delle posture dell'aggressività modula la comunicazione e il relativo feedback, in quanto l'aggressività costituisce il livello di pressione esercitata nella comunicazione e definisce contestualmente la posizione di subordinazione tra gli attori della comunicazione. Questa cinetica definisce una condizione di potere nella relazione inversamente proporzionale alla pressione dell'aggressività esercitata. La condizione diventa inversamente proporzionale in quanto maggiore è la pressione esercitata maggiore è il bisogno di feedback, quindi maggiore è il potere esercitato, maggiore è il bisogno di comprendere l'efficacia del potere esercitato.


 

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