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La negatorietà nei dinamismi relazionali

In questo capitolo andremo a comprendere il complesso fenomeno della negatorietà nei comportamenti relazionali, che nasce come comportamento difensivo, si sviluppa e si veste di molteplici maschere, anche contraddittorie tra loro; si esprime eminentemente nei metacomportamenti. Quando un individuo si trova in uno stato in cui percepisce qualcosa di potenzialmente sgradevole, si accende una catena di fenomeni comportamentali difensivi. Con particolare evidenza, troviamo una serie di posture nell'espressività verbale e corporea che esprimono, attraverso una serie di proiezioni e di trame competitive, la “negazione dell'altro”, a prescindere da quale sia il contenuto che sta tentando di esprimere. La “negazione dell'altro” risulta un atteggiamento che ha lo specifico intento di allontanare l'evocazione emotiva o sentimentale che si è accesa all'interno della persona. L'atto di negazione che si viene a esprimere risulta duplice in quanto il tentativo è rivolto contemporaneamente all'interno di sé nell'allontanare la propria evocazione proiettiva, e all'esterno negando drammaticamente l'altro. Questo complesso di fenomeni può essere definito come “negatorietà”.

Negatorietà nella morale

Perché leghiamo il concetto di negatorietà con il sistema della morale? Nei dinamismi e nei comportamenti dell'interazione umana, troviamo un pensiero che, al di sopra di altri, caratterizza un sistema di discriminazione: la morale. Essa si innesta sul tessuto linguistico e crea un impianto normativo. Dobbiamo ora distinguere la funzionalità sociale e collettiva di questo potente regolatore dal suo significato nella morfologia dei dinamismi mentali e la sua possibile ipertrofia, con la conseguente nascita di concetti come “problema” ecc... Nella collettività occidentale la morale svolge un ruolo molto importante. Essa diviene fulcro ogni qualvolta si profili una qualche conflittualità o questione da risolvere. La morale aiuta l'individuo a discernere le proprie scelte e a definire la propria scala valoriale. Quanto appena detto rappresenta la condizione stereotipata di questa area filosofica; ora, inizieremo a sviscerare e comprendere i retroscena e i loro effetti nella psicologia e nelle dinamiche relazionali.

La morale anzitutto diviene una forma di discriminazione, in quanto, per sua conseguenza, vi è sempre qualcuno che per qualche ragione rimane “escluso”, “sbagliato”, “colpevole”. Per questa propria natura di selettore, la morale focalizza sempre e, purtroppo, spesso implicitamente, una scala dove qualcuno sta sopra e qualcuno sta sotto. Come sosteneva Nietzsche in Genealogia della morale, essa è uno strumento che nasce per consolidare la relazione tra un debitore e un creditore. Risulta implicito che qualsiasi gesto, analizzato e compreso nella sua valorialità morale, definisce chi è dal lato buono e chi non lo è. Paradossalmente, prendendo a esempio la figura del missionario, possiamo notare che il suo sacrificio e l'attività benefica della missione si strutturano e vivono in seno ad un grande dislivello con il beneficiario dell'attività missionaria. Le persone da aiutare divengono, in questa attività, quelle che sono in qualche modo “inferiori”, quindi “sbagliate”, da “correggere”, da “aiutare”. Questa generica definizione crea un panorama particolare, dove gli individui che devono essere aiutati si trovano a percepire il loro stato di inferiorità. Questo stato è l'effetto diretto di un atto, socialmente condiviso, dove l'attività discriminatoria ha pieno effetto e produce un pesante divario tra chi si sente e diventa effettivamente “inferiore” e chi ha sancito arbitrariamente questa “inferiorità”. Oggi tutti sappiamo che la differenza culturale non definisce affatto una superiorità o un divario, ma, al contrario, definisce un'identità da rispettare. Nei rapporti personali, implicitamente in ogni scelta si pone un analogo fattore discriminante, che, a vari livelli di pesantezza e gravità, agisce delle forme di negazione diretta. La morale, nel suo uso teoricamente rivolto a identificare “il meglio per tutti”, genera e alimenta il peso del sentirsi inclusi in qualcosa (gruppi, appartenenze, branchi) e, contemporaneamente, l'esclusione, il senso di colpa, il senso di inadeguatezza e tutte quelle situazioni nelle quali la persona si sente giudicata. La morale fornisce una catena di percezioni dove la persona è in grado autonomamente di fare il “processo” a ogni segmento della propria e altrui vita.

L'uso della morale definisce sempre la negazione di qualcosa e, in questa direzione, possiamo comprendere che, nei rapporti umani, la negazione assume un senso funzionale particolarmente interessante. Nel momento in cui due persone vivono una scelta, per quanto essa sia elementare, uno dei due soggetti verrà negato, anche magari solo minimamente, poiché nella relazionalità solo uno dei due può prevalere, anche quando, in una complicità, apparentemente non è così. Dove c'è una condizione morale, c'è sempre una negazione; la morale istituisce un confronto che diviene competizione, nella quale per forza c'è un prevalente e un prevaricato. La morale nasce nella definizione del dualismo tra bene e male; di conseguenza, chi non fa parte dell'area del bene, è direttamente nell'area del male. Nella pratica del quotidiano, la negatorietà a carattere morale viene usata nell'esercizio del potere relazionale, sia di tipo familiare sia sociale nell'entourage, nell'amore e in tutte quelle situazioni dove la persona in qualche modo vi si appella quando ha bisogno di conferme. La morale sancisce regole per il funzionamento dei rapporti di lavoro, nel sostenere e sostanziare le gerarchie, definendo la superiorità e l'inferiorità, e, contemporaneamente, definendo la soddisfazione e la frustrazione, l'affermazione di sé e l'alienazione. La negatorietà di tipo morale produce una serie di doveri che, nella loro astrattezza, impersonalità e formalità, si contrappongono ai bisogni. Nelle attività collettive, che siano familiari o sociali, i bisogni dell'individuo rientrano solo parzialmente nella scala dei valori, ma, al contrario, tende a dominare il concetto morale di bene comune. La stessa ideologia del benessere non è calibrata sui bisogni individuali, ma anzi su valori stereotipati che implicano il sacrificio e la frustrazione dei bisogni individuali stessi (produttività, PIL, benessere economico, competitività sul mercato, sicurezza, disciplina, leggi, giustizia,...). Bisogna sottolineare il fatto che i bisogni individuali spesso non sono riconosciuti dalla persona stessa, che li confonde con gli stereotipi e le abitudini per effetto della loro condivisione collettiva, che ne deforma la percezione. Assistiamo frequentemente, per esempio, a persone che sono disposte a sacrifici di mesi pur di ritagliarsi una settimana di relax. Questo esempio evidenzia la paradossalità di un benessere conseguito attraverso un affaticamento, in cui il relax è insufficiente a compensare la fatica profusa. Il sacrificio e il merito si configurano quindi come due aspetti conseguenti, dove solo se si soffre si merita poi di stare bene; tuttavia, queste due dimensioni, di fatica e di benessere non sono assolutamente proporzionate. In questo esempio, la struttura morale definisce il supremo valore del “bene” del benessere, legittimato moralmente e guadagnato attraverso il precedente sacrificio.

Addirittura, possiamo definire che la condizione morale e i bisogni individuali oggigiorno siano quasi antitetici. Ci potremmo allora domandare come mai la dimensione morale sia così diffusa e imprescindibile, dal momento in cui essa frustra i desideri e i bisogni individuali. La risposta risiede nella relazione che si istituisce tra l'imposizione di un dovere prefigurato e astratto e la struttura linguistica e normativa del Superego.

Nelle sequenze di atti e percezioni delle relazioni tra persone, avviene che l'individuo si trova a dover continuamente compiere scelte. L'attività comunicativa, fin dal suo esordio nella relazione di un determinato momento, è già definita da una condizione morale. Per esempio, due persone che si incontrano si trovano a non avere scelta se salutarsi o meno. Che lo facciano o che non lo facciano, le normative implicite che determinano le caratteristiche del comportamento sono comunque in atto. La condizione morale agisce e interagisce nel sistema superegoico delle normative, a prescindere dalla nostra consapevolezza diretta. Ogni nostra scelta e postura nasce in chiave a-morale sotto la spinta di uno stato emotivo, ma immediatamente collocata, interpretata e definita in una posizione moralmente accettabile. Questa condizione di a-sintonia tra la spinta generatrice di un comportamento e la normativa che moralmente lo legittima è ciò che impedisce alle persone di riconoscere i propri dinamismi emotivi. Troviamo che, per effetto di una cultura generale, l'aspetto morale ha il sopravvento sulla comprensione delle funzionalità e degli scopi dei dinamismi emozionali. I comportamenti sono considerati validi perché legittimati moralmente; purtroppo, però, sappiamo che, frequentemente, viviamo in uno stato di contraddizione, dove le esigenze, i bisogni e la realtà che percepiamo sono in palese dissonanza. In altre parole, assistiamo frequentemente al fatto che in diverse fasce di età le esigenze e i bisogni di una persona agiscono emotivamente in una certa direzione, ma, al contrario, le posture morali tendono a negarli. Questa contraddizione tra il bisogno individuale e la “retta via” diventa uno stato di anomalia che porta l'individuo verso il disorientamento nella percezione di sé, dei propri bisogni e della propria posizione. Gli stati di anomalia, ossia quelli in cui i bisogni sono in esplicita contraddizione con i precetti morali adeguati, fanno percepire all'individuo che le sue esigenze sono moralmente insostenibili, e questo genera fortissime sofferenze. Con il crescere della lacerazione identitaria conseguente, l'individuo vive una proporzionata amplificazione della sensazione che non vi siano possibilità di lenire il proprio disagio e dolore. La sofferenza che si genera in questa sequenza diventa così forte da obbligare l'individuo a deformare la maggior parte della propria percezione di sé, strutturando problemi e soluzioni sempre più sulla base di costrutti di tipo morale (ideologizzazione). La persona attanagliata dalla sofferenza deve trovare una via di uscita dal proprio stato, ma essa non può essere in contraddizione con l'assetto morale, anche se, paradossalmente, la via di uscita non appartiene alla visione morale della situazione.

A questo punto possiamo porre la seguente domanda: perché la via di uscita da un problema non appartiene alla visione morale della situazione? Ricordiamo che la sofferenza obbliga l'individuo alla ricerca di una soluzione, la quale nella sua più immediata definizione tende a collocarsi in due aree, alternativamente quella della vendetta e del vittimismo, entrambi nelle loro varie forme. Queste opzioni di reazione sono ambedue moralmente non valide allo sguardo della collettività proiettiva e ai precetti della più comune educazione. La morale pone un binario obbligatorio di problemi e soluzioni. Ossia, la drammatizzazione dell'evento sofferente e l'urgenza di una sua soluzione dignitosa sono deformati dalla morale, limitando, se non addirittura impedendo, la percezione dei bisogni e delle dinamiche emozionali reali dell'individuo. Se da un lato la morale pone dei precetti prefigurati e indiscutibili, che quindi non vengono messi in discussione ogni volta, dall'altro essa, con la sua rigidità e universalità generalizzata, deforma la percezione del dolore, del problema e delle forme della sua soluzione. Ne risulta che le reazioni possibili che esulano dal binario tracciato dalla morale sono condannate e considerate poco praticabili. Come vedremo in seguito, le difficoltà e le sofferenze sono fortemente legate ai fattori della percezione e, pertanto, quest'ultima costituisce l'area su cui concentrare le nostre attenzioni.

 
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