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Le dinamiche sacrificali

É noto che il sacrificio è una pratica con diverse finalità (religiosa, spirituale, morale); il filo conduttore dei vari ambiti in cui viene disciplinato è quello di dimostrare, attraverso la rinuncia, una fede oppure un valore. In ogni caso, l'aspetto che qui andiamo a evidenziare è che il valore e la fede passano attraverso la negazione. Il principio che guida questa enorme area delle manifestazioni culturali è la mancanza di fiducia, dove si ritiene che il proprio agire costruttivo e assertivo non sia una dimostrazione sufficiente agli occhi di chi valuta (la divinità, la comunità, l'Altro). Nelle diverse culture e discipline il sacrificio e la negazione hanno assunto molteplici accezioni, logiche e strategie, con i più disparati scopi.

Nella cultura globalizzata contemporanea occidentale, il sacrificio, quindi, è universalmente riconosciuto come un valore, in quanto dimostrazione di capacità e controllo. Nello stesso tempo, esso è anche sinonimo di conseguimento di obiettivi, mete, propositi. Questi due ambiti di significato rappresentano due orientamenti che, essendo proposte culturali che godono di oggettivazione collettiva, forniscono all'individuo una logica di disciplina attraverso la quale compensare e superare difficoltà della propria identità (lacune del modello emotivo). Le dinamiche sacrificali non rappresentano l'intero panorama delle soluzioni culturalmente proposte per il superamento e per la compensazione delle difficoltà, ma sono tra le più diffuse nei modelli culturali cristiani, in particolare cattolici. Come è facile osservare, i modelli di “successo” proposti dalla filosofia di queste aree sono caratterizzati dalla definizione di conseguimento attraverso una disciplina di negazione e il sacrificio.

I santi, i martiri, gli studiosi, i cavalieri, le vittime, le donne, i bambini, nella loro rappresentazione valoriale ed etica sono caratterizzati dal negare le proprie spinte vitali per sviluppare invece un obiettivo moralmente superiore: il bene. Non è una novità che le persone spesso identificano il proprio valore in funzione di quanto “bene” agiscono o, al contrario, focalizzano la soddisfazione perseguita attraverso quanto “male” producono (trasgressione). Nella visione collettiva, però, viene evidenziata e focalizzata unicamente la componente visibile del sacrificio, ossia l'apparente adesione a un atteggiamento emotivo dove domina la negazione della propria felicità, e non l'autentica motivazione della persona. In realtà, un soggetto capace di compiere qualsiasi atto di grande valore sociale è spinto da una motivazione e non da una negazione.

Pertanto, la rappresentazione collettiva ci dipinge un atteggiamento di disciplina e sacrificio, quando invece il soggetto è stato spinto da una grande voglia di soddisfazione, gratificazione e riconoscimento. In altre parole, assistiamo al fatto che, frequentemente, nella cultura vi è una forte distorsione nell'interpretazione e nel valore dei comportamenti, dove la ricerca di gratificazione viene fatta passare per sacrificio. Questa traslazione di significato che viene operata a livello culturale e sociale avviene per scopi che ora non andremo ad approfondire, ma che riguardano la funzionalità collettiva di mantenere un controllo sulla riproducibilità dei comportamenti e sul loro valore che non deve focalizzare il tornaconto personale o una soddisfazione individuale. La collettività interpreta come sacrificali i comportamenti che vengono compiuti seguendo una propria motivazione, legittimandoli con la statura morale per mantenere un controllo collettivo. Prima di procedere, dobbiamo ricordare che l'oggettivazione dei valori sociali è basata sulla condivisione di opinioni. Quando più persone condividono uno stesso pensiero, esso viene assunto come vero, a prescindere da qualsiasi realtà materiale (dinamiche di gruppo).

Del resto, è oggi ampiamente noto che raffigurare le conseguenze negative di un comportamento attiva una particolare condizione dei comportamenti stessi (controllo e manipolazione mentale attraverso la paura). Per semplificare, ciò che viene comunicato è che se non si agisce un determinato comportamento, le conseguenze saranno caratterizzate dall'assenza e dalla privazione di un determinato bene o valore. Questo attiva un particolare stato di paura inconsapevole che induce la persona ad adottare il comportamento proposto. Ecco alcune tra le più diffuse associazioni di questo tipo:

  • Se non mi sacrifico non imparo
  • Se non mi lavo i denti con quel dentifricio allora mi vengono le carie
  • Se non prego non vado in paradiso
  • Se non compro il disinfettante di quella marca mi ammalerò
  • Se non compro quel giocattolo a mio figlio non sarà felice
  • Se non prendo un buon voto avrò una vita infelice
  • Se non lavoro duramente perderò il posto
  • Se non mi pento non otterrò il perdono
  • Se non mi dedico completamente al partner smetterà di amarmi
  • Se non mi telefona forse non mi ama

Motivazione e comportamento
Accade quindi che tra la realtà e la rappresentazione che culturalmente viene assunta e oggettivata vi sia un forte divario sia nell'ambito dell'origine (motivazione) sia nell'ambito del modo (comportamento). Nel tentativo di formulare modelli di comportamento positivi con efficacia garantita, tra le componenti della motivazione e quelle del comportamento, viene focalizzata l'oggettivazione su queste ultime, in quanto la spinta emotiva motivazionale appartiene alla sfera intima e inconsapevole dell'individuo; pertanto, meno appariscente e condivisibile. Inoltre, l'individuo tende sempre a focalizzare con significativa priorità tutti i comportamenti e i fattori che attivano l'emozione primaria della paura, per ovvie ragioni funzionali e autoconservative. In questo quadro, è facile intuire come una comunità focalizza un contenuto valoriale: se ciascun individuo tende a notare prioritariamente il comportamento piuttosto che l'origine motivazionale, la collettività troverà coesione nell'oggettivare che il modello funzionale garantito riguarda il comportamento piuttosto che la motivazione.

In questo dinamismo sociale, abbiamo quindi il prevalere della componente morale-valutativa (trasmissione di comportamenti presunti efficaci), che genera l'oggettivazione del modo (impegno e sacrificio) e scarta il vero motore inoggettivabile e indefinibile che è la motivazione. In questo profilo, si può comprendere come i modelli emotivi individuali vengano a sommarsi in un assetto collettivo in grado di oggettivare qualsiasi cosa. Questa dinamica condiziona se stessa, sulla base di una visione cognitiva e apparente, che però tende a escludere tutto ciò che non riesce a spiegare. Risulta conseguente che la postura individualmente dominante, che vede porre maggiore attenzione alle percezioni della realtà legate alla paura, diviene il criterio valutativo condiviso nel focalizzare comportamenti positivi. Questo determina un trasferimento generazionale di modelli comportamentali con una forte deformazione. In altre parole, se le persone sono turbate dalla paura, produrranno una cultura di comportamenti forgiati sulla paura. Risulta evidente che l'esaltazione del comportamento e l'omissione della motivazione sviluppano modelli e schemi emozionali deformati.

Quale legame unisce l'emozione primaria della paura al sacrificio? La risposta è una domanda fondamentale: come posso evitare di sbagliare? Oppure: qual è la cosa giusta da fare? Davanti a questi quesiti, l'individuo ha l'obbligo di risposta, pena l'emarginazione e/o grandi sensi di colpa. La risposta viene estratta dalle regole e dalle normative del Superego, ove risiedono le indicazioni oggettivate dalla collettività (stereotipi). Esse, scaturite e forgiate sulla paura, garantiscono che attraverso il sacrificio (dove l'individuo nega se stesso) si annulla la colpa di ogni possibile errore. Il sacrificio rappresenta quindi una garanzia a discolpa degli errori e una più profonda risposta alle spinte del modello emotivo, che, fondato e oggettivato sulle pressioni della collettività, vede precondizionate le domande a cui rispondere.

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