HOME
Non-Psicologica
 

 

Il vittimismo

In questo capitolo, trattiamo il delicato tema del vittimismo. Nella realtà troviamo due tipologie di vittima: quella incidentale e quella relazionale. Nel primo caso, la posizione di vittima nasce da incidentalità di azioni che ledono il soggetto su diversi livelli; nel secondo caso, invece, la persona aziona inconsapevolmente comportamenti, dinamiche, somatizzazioni non direttamente collegati all'incidentalità. Di seguito, sviluppiamo la trattazione del secondo tipo di vittima. In molteplici studi di tipo antropologico si è trattato del tema della vittima, sia di tipo sacrificale sia come atteggiamento rispetto alle difficoltà umane. Quello che invece andremo ad analizzare sarà il concetto di vittima nelle relazioni, escludendo quindi il connotato di simbolo sociale e di funzionalità rituale.

Nella visione comune, la vittima è colui che soffre. La persona soffre a causa di qualcuno o di qualcosa e attiva nel proprio entourage i dinamismi della pietà e della compassione. Nell'odierna cultura occidentale, la notevole dominanza del senso di colpa pone un valore elevato alla compassione e ai comportamenti correlati. Dobbiamo ricordare che l'intero impianto della cultura cristiana è fondato sul mutuo soccorso, sull'assistenza ai bisognosi e sul supremo sacrificio come riscatto dalla colpa. Il soggetto che entra in relazione con una vittima vive inconsapevolmente e perentoriamente l'obbligo morale di attivarsi verso il soccorso. Questa elevata posizione nella scala valoriale rappresenta un riferimento oggettivato per la morale e per l'etica sociale, definendo, contestualmente, anche la misura equipollente del senso di colpa in caso di assenza di soccorso. Nell'ambito delle relazioni umane, avviene quindi che anche il più semplice comportamento vittimistico ottiene il risultato di produrre uno schema di interazioni rigido e preciso. Nella realtà quotidiana, è frequente assistere a lamentele di ogni sorta, attraverso le quali la persona si aspetta e induce precisi comportamenti da parte di chi ascolta.

Se da un lato un soggetto vittima di qualche evento è oggettivamente vittima, dall'altro l'ascoltatore è moralmente obbligato a fornire compassione e assistenza alla vittima, a prescindere dal reale stato di vittima della persona che si lamenta. In questo quadro, è facile comprendere come questo schema si presti anche a un utilizzo funzionale e inconsapevole di tipo manipolatorio, in quanto una persona in preda a un disagio emotivo di qualsiasi genere può trarre diretto beneficio da attenzioni e cure attraverso la postura vittimistica. La condizione della vittima, in questo caso, muta di stato, da oggettivamente incidentale a relazionalmente manipolatorio. Non dobbiamo dimenticare che le posture emozionali e i conseguenti comportamenti non sono da collocare in un quadro morale positivi o negativi, bensì funzionali alla soddisfazione di bisogni profondi.

Possiamo quindi distinguere la profonda differenza che sorge tra il soffrire e l'utilizzo che se ne fa. Senza entrare nel merito dei vari modi con i quali la persona comunica la propria sofferenza, poniamo la nostra attenzione sugli effetti che tale comunicazione produce. Ci sono persone che enfatizzano e drammatizzano il dolore, altre che lo esprimono sommessamente nel silenzio. La condizione rilevante sta nel fatto che, in ogni caso, vengono assunti comportamenti specificamente prodotti per comunicare lo stato di sofferenza, nell'aspettativa inconsapevole di ottenere precisi feedback dal proprio entourage; l'individuo vittima si aspetta di ricevere attenzioni, cure, subordinazione e priorità per effetto del proprio disagio emotivo, a prescindere dalla reale legittimità.

In alcuni ambiti delle relazioni umane, questo dinamismo inverso e manipolatorio viene utilizzato assai frequentemente; il più importante tra questi è la relazione sentimentale, sia di stampo amoroso sia all'interno dell'area familiare. In ciascuna di queste due aree troviamo grandi attività del senso di colpa, presente esattamente in funzione di quanto vengono agiti comportamenti da vittima da parte dei componenti in gioco. Vi è una diretta e oggettiva relazione tra le inibizioni che vive una persona soggetta a senso di colpa e i dinamismi vittimistici azionati nel proprio entourage. In altri termini, assistiamo sovente all'utilizzo di posture vittimistiche per indurre mutazioni nei comportamenti altrui.

Nelle relazioni umane di qualsiasi natura, si instaurano delle forme gerarchiche, anche inconsapevoli. Questa gerarchia si forma attraverso diverse modalità di esercizio del potere, utilizzando gli stereotipi della comunicazione. Tra questi, spicca la postura vittimistica in quanto portatrice di effetti rilevanti. Nella visione comune, il potere e l'autorità nelle relazioni viene identificato con gli stereotipi dell'assertività, dell'aggressività e dell'autorevolezza. Tuttavia, possiamo osservare quanto questi stereotipi vengano sommersi davanti all'esercizio del potere delle dinamiche vittimistiche. È noto il grande potere della cosiddetta aggressività passiva (potere del silenzio nella relazione), dove, proprio attraverso l'assenza della parola e la presenza di comportamenti passivo-vittimistici, vengono a instaurarsi forti dinamiche vittima-carnefice. Queste dinamiche sono assai presenti negli schemi comportamentali matrimoniali e, più in generale, della coppia, nei rapporti genitori-figli e, in forme leggermente diverse, anche nei rapporti amicali. Lo schema più palese dell'esercizio del potere attraverso il vittimismo è facilmente osservabile nei comportamenti infantili del pianto, il quale esercita un pesante leveraggio affettivo sul genitore.

Possiamo quindi comprendere come la figura moralmente difendibile della vittima possa invertire la sua posizione morale quando l'uso di questo potere condiziona l'altra persona esercitando una forte pressione, tale da mutarne i comportamenti. Non è raro rilevare nei dinamismi della coppia un forte dominio esercitato dalla persona palesemente più debole e fragile, ma che di fatto tale non risulta nel generale contesto della sua vita. Questa discrepanza ci indica un uso inconsapevole ma determinato della funzionalità dell'assetto vittimistico come forma di esercizio di una forte influenza. Quando questi schemi sono attivi abbiamo il generarsi di un'inversione del contenuto della dinamica vittima-carnefice, dove la vittima esercita una forte pressione sul partner, snervandolo e provocando forti reazioni, anche palesi, ma soprattutto generando un quadro dove la vittima apparente è in realtà colei che aziona questo meccanismo, cioè il carnefice, e colui che appare nel comportamento come carnefice è la vera vittima. In altre parole, non sempre la persona più esplicitamente aggressiva è il carnefice, e non sempre la persona passiva e sottomessa è la vittima. Con questo quadro, si può comprendere in maniera più approfondita quanto i dinamismi del comportamento trascendano l'apparenza e vadano compresi sulla base di un principio funzionale e non morale.

In alcune grandi aree culturali del pianeta, gli stilemi culturali vittimistici sono più presenti che in altre. Particolarmente evidente da questo punto di vista è quella cristiano-cattolica, dove i modelli eroici e quelli di sviluppo della personalità sono basati sul sacrificio e sulla negatorietà. In altre parole, in queste aree culturali l'educazione e la formazione della personalità hanno come dominanti le dinamiche dell'emozione primaria della paura. Questi fattori culturalmente “ambientali” avvolgono la famiglia nel suo insieme e nella continuità generazionale. Quest'atmosfera culturale dove dominano le dinamiche della paura permea trasversalmente le generazioni, che assorbono e riproducono il medesimo modello emotivo, il quale mantiene il proprio tratto mutando leggermente l'adattamento individuale, ma non quello sostanziale di mappa emotiva. In altri termini, se i genitori conducono la loro vita in prevalenti dinamismi della paura i figli tenderanno ad assorbire e riprodurre i medesimi dinamismi, a prescindere dalla forma esteriore apparentemente diversa. L'individuo riproduce inconsapevolmente gli stessi contenuti emozionali, ma adattando e modificando la forma a seconda dei differenti ambienti generazionali.

La postura della vittima (ossia, del soggetto dominato dalla paura, più o meno manipolatorio) diviene un riferimento importante nel comprendere individualmente il proprio quadro emotivo di partenza che guida i propri comportamenti.Questi ultimi, che siano compensativi o direttamente riproduttivi dello stato vittimistico (quando presente), rappresentano la chiave per comprendere il proprio potente motore emotivo interiore. Come già espresso trattando i dinamismi dell'esperienza e della formazione dell'identità, il dominare della paura e dei dinamismi vittimistici inibisce fortemente l'elaborazione di intere aree esperienziali, consolidando e confermando la paradossale robustezza dell'impianto vittimistico nelle relazioni umane. Concludendo, possiamo asserire che il comportamento vittimistico è tanto perverso quanto efficace, ed essendo profondamente radicato nel modello emotivo primario della persona, è anche la zona più difficilmente percepibile di se stessi. Nelle relazioni sentimentali, il soggetto che aziona dinamismi vittimistici trasduce e guida il partner a sentirsi a sua volta vittima incompresa, in un loop senza fine e senza identità di negazioni reciproche che, inesorabilmente, conducono alla conflittualità e alla rottura (vedi anche gelosia).

Quanto sopra esposto spalanca le porte a un'osservazione pragmaticamente diretta nel dinamismo tra i genitori e i figli. I segnali comunicativi primari dei disguidi della paura si evidenziano attraverso i comportamenti che indicano un depotenziamento del bambino; dalla timidezza all'inabilità, dai disturbi della comunicazione alle forme proto-autistiche assistiamo alla presenza di dinamismi vittimistici prodotti dalla paura. In questo quadro, dove genitori e figli non percepiscono direttamente queste specifiche attività emozionali, si instaurano importanti inversioni di ruolo. Assistiamo a genitori assoggettati ai propri bambini e bambini con comportamenti “adultizzati” che vittimizzano i genitori. Il quadro chiaro da percepire e osservare è quello in cui un modello emotivo vittimistico di un individuo produce e condiziona i comportamenti altrui, consolidando però e comunque l'efficacia del modello stesso. Pertanto, non importa se uno stato di vittima sia legittimo, sia vero, sia oggettivo: ciò che conta è la percezione di esso e come le figure intorno ne siano condizionate o addirittura guidate. Non dobbiamo dimenticare che i dinamismi che abbiamo citato producono come macro conseguenza il senso di colpa. Il genitore non si accorge che, nel presunto dovere di essere un bravo genitore, attua molti comportamenti dettati da questa paura; al bambino arriva lo schema comportamentale specifico di questa paura, che assorbirà come modello valido (in quanto genitoriale), e che, in seguito, svilupperà (dinamismo imitativo-riproduttivo del modello emotivo).

Nel panorama del sistema culturale cristiano-cattolico, anche le strutture collettive che circondano il bambino, quali scuola, educatori, centri ricreativi, focalizzano il loro assetto sulla presunta inabilità e difficoltà del bambino, legittimando e definendo una generica e distorta percezione di sé e, qualora un modello emotivo vittimistico si è già installato nel bambino, si viene a consolidare ineluttabilmente una deformazione della personalità.

 

HOME

Sito di divulgazione e pubblicazione culturale
I contenuti pubblicati in questo sito sono di proprietà intellettuale di Alberto Bonizzato
In collaborazione con: Laura De Biasi e D.ssa Maria Russo

Contatto: ask@non-psicologica.org