NON PSICOLOGICA

 

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                                           L'Approvazione sociale

 

Partiamo da una specie di esempio, una sequenza inventata per esprimere un dinamismo.

 

Se in famiglia un bambino ottiene attenzioni solamente a seguito delle sue performance, egli si addestrerà da solo ad eseguire delle performance. Ma col passare del tempo e i bisogni di evolvere diverse esperienze, le performance dovranno divenire sempre più elevate, poiché i familiari si abituano alla crescita delle sue doti. Il bambino regola le dinamiche dell'attenzione attraverso il continuo soddisfare le presunte aspettative di performance erogate. I genitori pensano che il figlio sia felice di continuare a performare. Un grandissimo equivoco basato sulla reciproca inconsapevolezza. Ad un certo punto il bambino (che cresce), non saprà più distinguere la sua identità di persona e quella della sua bravura, all'interno del dinamismo delle attenzioni che si è consolidato. Egli scoprirà presto che quel continuo dimostrare che è bravo, non lo ripaga più, soprattutto in funzione del fatto che la famiglia "si abitua" alla eccezionalità delle sue performance, qualsiasi esse siano, non erogando più quelle attenzioni così entusiasmanti come ai primi tempi. Paradossalmente, crescendo, il ragazzo sentirà sempre più come opprimenti quelle performance che una volta gli piacevano tanto, che invece ora, tutti si aspettano da lui/lei.   Il figlio/a per perpetrare questa dinamica a cui è stato inconsapevolmente addestrato, cerca sviluppi alle sue attitudini di performance, le trova belle pronte negli stereotipi sociali, culturali e collettivi. Dopo aver compreso quali canali hanno più efficacia per lui, proseguirà la sua scalata nell'esercizio delle sue performance. Anche i suoi obiettivi si espanderanno e non gli basterà più la platea della famiglia, il plauso e la soddisfazione arriveranno dalla sua abilità di ammaliare un pubblico estraneo, esteso o intimo che sia. Il "valore di sé" che poggiava sul riconoscimento della propria abilità, ora diviene un cappio al collo che non riesce a togliersi. Siamo davanti al meccanismo perverso della subordinazione al consenso sociale (dapprima familiare) che si genera attraverso il complesso sistema della valutazione (negatorietà), sia essa positiva o negativa, in quanto comunque sia, un giudizio genera sempre un orientamento in chi lo subisce.

 

Questa riflessione ci porta a illuminare un processo intimamente collegato alla approvazione sociale: parliamo dell'autostima. Questa è un grande concetto/contenitore, che vede mescolate diverse rappresentazioni mentali di sé stessi, dalla percezione delle proprie abilità, alle paure, al tipo di successo personale, ecc. Tutto mescolato in un quadro interiore generale molto confuso. Questa definizione di auto-valutazione (autostima deriva da stimare=misurare) è un indicatore d'insieme, che spesso, nell'uso errato che se ne fa, può indicare molte cose che ognuno valuta secondo principi e metriche tutt'altro che oggettivi e soprattutto inutili.  L'auto-valutazione si sé, cioè l'autostima, avviene sempre "dopo" un fatto critico, poiché, se le cose vanno bene l'individuo non sentirà alcun bisogno di darsi una valutazione attenta. Ne risulta che l'errore comune che fanno tutti, sta nella sequenza, in quanto questa misurazione misura solo le situazioni negative comprovate. In qualche modo si ritiene che l'attività inerente all'autostima sia in grado di condizionare le nostre emozioni ed i comportamenti. Purtroppo, come ogni attività cognitiva, non riesce a scalfire e modificare alcun aspetto del carattere e della vita emozionale della persona. Anzi, siccome è una valutazione sommaria, essa si genera come spiegazione di qualcosa di negativo (che è già avvenuto) mantenendo e avvalorando il disagio che la persona già prova. In questo senso, più la persona cerca la soluzione ad un problema interiore, più lo conferma e consolida come propria incapacità di risolvere un problema emotivo.

 

Da questa terribile sensazione che vede l'insinuarsi del nostro non essere capaci di cambiare, nasce anche un altro parametro di paragone, molto comune tanto quanto aberrante: l'dea di normalità.

La normalità di una persona (concetto stereotipo) è quella condizione dove, in un dato contesto, produce una specie di consuetudine: quella che a volte si definiscono "tante normalità diverse". Non è il concetto di norma ad essere negativo, ma il suo formarsi, poiché quando nella mente si forma una norma a cui conformarsi, l'individuo perde la sua individualità emozionale per orientarsi a comportamenti e statu sociali per ottenere l'approvazione altrui. Questo, in funzione del fatto che la norma sancisce un comportamento socialmente proposto o richiesto a prescindere dalle esigenze interiori della persona, che anzi spesso verranno negate. Da un certo punto di vista la norma spesso è avulsa dalla spinta emozionale interiore dell'individuo e viene assunta o accettata per puro spirito di adattamento.  Poi, nella realtà, le cose non sono spesso drastiche, perciò abbiamo tanti livelli di comportamenti "normali" che non fanno particolarmente soffrire, ma la base è, che se un individuo, in un dato contesto, agisce un comportamento non sentito, entra nella dimensione della negazione di sé e comincerà a sentirsi vittima. La sua "normalità", forse si potrebbe definire un sintomo...

 

Ma chi più, chi meno, siamo degli imitatori, l'essere umano imita notevolmente i propri simili. Questo fatto genera molti effetti sull'individuo e nelle culture più complesse, dove non c'è una semplice modalità di comportamento ma molti tipi di contesti assai diversi, il sistema dei neuroni specchio, che genera la spinta imitativa con lo scopo di acquisire le capacità, produce degli stati inaspettati e soprattutto stati di sofferenza. L'individuo, nella complessità di una società in contraddizione, effettivamente non riesce più ad individuare i comportamenti socialmente accettati con facilità e adattarvisi. Questo processo, in distorsione, genera il problema della "normalità" del nostro modo di essere. Siamo o meno normali? ...Si drammatizza così la concezione della propria identità, vissuta con affanno ed apprensioni varie, alimentate da una concezione di "normalità" che però è divenuta inafferrabile. L'imitazione è sotto gli occhi di tutti.

 

 

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