NON PSICOLOGICA

 

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                                                                     La depressione

 

Cosa accade se dobbiamo andare al lavoro in automobile ma quel mattino la nostra automobile ha le quattro gomme bucate? Possono accadere molti fatti e ci si prospettano diverse soluzioni, ma la cosa che più probabilmente accade è che entriamo in uno stato emotivo di blocco e di rabbia. Blocco perché se volessimo cambiare le ruote bucate abbiamo comunque una sola ruota di scorta, blocco per la straordinarietà della situazione e per il senso di impotenza per la non immediata solvibilità del problema. Rabbia perché la condizione morale ci identifica colpevoli, in quanto arriveremo tardi al lavoro, rabbia perché dovremo spendere una somma per rimettere a posto le ruote e perderemo mezza giornata per una situazione che non vorremmo, e così via. Cosa succede però se il guasto non si può inquadrare in un qualcosa di noto, come nelle gomme dell'automobile, ma riguarda la percezione più interiore di noi stessi? In questo caso non abbiamo ruote da cambiare, non ci sono gommisti e non arriveremo tardi al lavoro, ma ci troveremo in una impasse nella quale non c'è una risposta concreta, non c'è una spiegazione diretta, ma soprattutto non si riesce ad inquadrare con chiarezza la fonte originaria del bloccarsi e della rabbia. Molto è stato scritto sulla depressione, ma mi sembra che pochissima attenzione sia stata posta ai percorsi e alle dinamiche concrete che la generano. Come abbiamo capito, le emozioni primarie (curiosità e paura) governano le azioni; questo è un dinamismo primario che è particolarmente importante nello sviluppo e nel mantenimento della percezione della propria identità e, quando quest'ultima arriva a soffrire di disorientamento, l'individuo non è in grado di risalire alla sequenza di situazioni che l'hanno prodotto. Quando una persona cresce in un addestramento culturale fondato sulla negazione, si abituerà a identificare la propria inadeguatezza sopra e prima di ogni altra percezione di sé e delle proprie abilità. Fino a quando l'individuo riesce a mantenere un equilibrio tra la propria percezione di inadeguatezza e le rappresentazioni proiettive valorizzanti proposte dalla cultura, egli vive ed opera con uno sbilanciamento emotivo contenuto (tutto sommato se la cava). Questo gli permette di affermarsi e produrre la situazione a cui egli è più addestrato: negare: negare che egli è inadeguato. I presupposti di questo equilibrio sono quindi la negazione della propria inadeguatezza e la negazione della negazione della propria inadeguatezza .

 

Per comprendere meglio facciamo uno schema, Mario si sente inadeguato, egli teme di essere inadeguato, fa qualcosa per dimostrare che non è inadeguato. Mario agisce in funzione del bisogno di dimostrare la sua capacità, quindi cerca di negare la sua inadeguatezza. Essendo che il motore del suo comportamento è la negazione della sua capacità, questa negazione produce la negazione della sua incapacità; perciò abbiamo un principio negatorio che viene combattuto con un altro principio negatorio. Risulta implicito che l'efficacia di un sistema compensativo che nasce e vive sulla negazione non potrà produrre risultati non negatori, in quanto la spinta evolutiva è assente perché sommersa e surclassata dalla paura dell'inadeguatezza (stereotipo culturale); ma la “paura” qui descritta non è quella di una emozione primaria, ma la rappresentazione cognitiva di una postura culturale collegata alla negatorietà (moralizzata). La persona costruisce una buona parte della propria vita a sviluppare rappresentazioni che negano la propria inadeguatezza e, sia nel macrosistema che nel microsistema della vita, le performance, le competizioni e gli obiettivi rappresentano simboli eloquenti di quanto questo tentativo negatorio sia forte e radicato. Quando una persona vive e agisce immersa in questo tipo di stato interiore, non riesce a percepirne e definirne le “misure”, in quanto questi simboli, oltre a essere proiettivi, sono anche proiettivamente condivisi dalla collettività, pertanto, la identità simbolizzata non può essere interpretata dal soggetto come sua/propria proiezione.

 

Per fare un esempio, se da un lato la figura dell'eroe è un emblema di tipo evolutivo (attività di dimostrazione del proprio valore), non tutti poi nella propria vita vi si conformano; quelli che inconsapevolmente lo fanno, esternano esattamente la misura del conflitto interiore generato dalle conpresenze di negatorietà/competitività e dall'inadeguatezza; essi sono spinti continuamente a dover dimostrare il proprio valore: senza sosta. Siamo davanti ad un loop che ha un motore stabile e una conseguenza prevedibile, ma che l'interessato non può cogliere. Per evolvere in stati interiori più rilassati e soddisfacenti, si dovrebbe rompere l'equilibrio (a volte già precario) della dinamica eroica. Quando si presenta possibile questa mutazione, l'individuo non troverà altri orientamenti nel comprendere e definire la propria identità, poiché negli anni non l'ha sviluppata in modo individuato, ma l'ha conformata a sopravvivere in quell'equilibrio precario stesso. L'individuo che arriva al “capolinea” delle rappresentazioni proiettive compensative della propria identità negatoria si trova senza terreno sotto i piedi e non sa come cadere. Come dire che è formattato in modo da non trovare alternative. Quando l'individuo inconsapevolmente struttura la propria vita nella competitività è estremamente flessibile; questo stato si mantiene finché opera all'interno del percorso/spazio previsto, mentre al di fuori di questo si troverà in grande difficoltà emotiva e comportamentale.

 

                                                           Sviluppo della depressione

 

Se a un individuo, che all'interno di un proprio sistema negatorio agisce e si comporta in maniera di negare la propria inadeguatezza, gli si dimostra che egli non è inadeguato, egli non riuscirà a integrare questa informazione e mutare i propri standard di percezione di sé. Egli non riuscirà ad accettare interiormente la dimostrazione che va contro la propria struttura interpretativa e non verrà soddisfatto il suo bisogno di dimostrare di essere il migliore. In altre parole, egli negherà (come sua consuetudine) la validità della dimostrazione prodotta. Si sviluppa una complessità contraddittoria, dove tutto questo accade in un'area non cognitiva consapevole, ma nella realtà fattuale del comportamento; a parole egli accetta la dimostrazione della propria bravura, ma, nei fatti, egli continuerà a comportarsi come prima. Noteremo che i comportamenti continuano a generare comunicazione e questa produrrà percezione e proiezioni che tendono a legittimare se stesse. Quando la persona inizia a non riuscire a generare proiezioni valide a sostegno del modello emotivo in atto, inizia una crisi. Dapprima l'entità della crisi interiore è lieve; in questa fase si percepisce facilmente una vaga tendenza trasgressiva e un entusiasmo competitivo nell'esasperare rappresentazioni di sé originali, insolite e creative (queste rappresentazioni mantengono soprattutto il loro carattere performante). Via via che cresce la difficoltà a soddisfare la crescente spinta del disorientamento, l'individuo aumenta notevolmente il divario tra la realtà e le proprie proiezioni, identificando nel valore (simbolo) delle attività che egli svolge drammatizzazioni di importanza sempre superiori (alcune volte rasentando meccanismi simili alla mitomania). Questa escalation di sopravvalutazione della performance rappresentativa e proiettiva troverà un limite naturale, che, una volta raggiunto, si configurerà come un binario morto. Per allacciarci all'esempio dell'inizio del capitolo, l'individuo si trova tutte e quattro le gomme bucate ma non ha soluzioni. Ora è importante comprendere come l'impotenza conseguente sia data dal fatto che la persona ha usato tutte le sue energie e le sue doti per dare il massimo di sé, nel migliore dei modi, realizzando cose straordinarie, divenendo un modello (per quanto magari umile) di successo. Questa enorme e decennale performance, però, non lo ha perdonato ed egli si sente ancora non adeguato, si sente ancora non accettato. Cosa può fare? La rabbia sopravviene per la grande ingiustizia (moralizzazione vittimistica) che egli percepisce ma di cui non può accusare nessuno. La rabbia risulta repressa e devasta dall'interno l'individuo, decretando il blocco delle sue motivazioni, incanalando le sue emozioni verso la ricerca di un colpevole, sovradimensionando i comportamenti di paura di cui la stasi ne è l'evidente dimostrazione e generando perciò simboli che rappresentano questo agglomerato avvinghiato su se stesso. Questi simboli spesso sono portatori di un profondo senso di colpa proprio per la funzione di comunicare la propria inadeguatezza dimostrata e colpevolizzata da una performance fallita. Ciò che si vede dall'esterno è un individuo che ha perso l'interesse per tutto e, che abbia episodi aggressivi, di euforia o meno, i suoi comportamenti e le sue proiezioni ruotano attorno a questo fulcro: il bisogno di orientamento per ristabilire il senso delle proprie performance. Ovviamente, questo riorientamento non è possibile, in quanto questo fulcro è arrivato al suo fallimento. Allora cosa si può fare? La risposta sta nel guidare la persona a comprendere, nell'effettiva realtà dei dinamismi emotivi, la differenza tra la realtà e le sue proiezioni, dove, più forte è il divario, più probabile è il sopraggiungere di difficoltà e disorientamenti depressivi. La rieducazione da attuare davanti a un disorientamento riconosciuto è di tipo emotivo; perciò, si tratta di ristrutturare quel fenomeno di associazione tra emozioni, comportamenti e feedback (abbiamo già espresso questo dinamismo nei capitoli precedenti).              

 

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