NON PSICOLOGICA

 

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della mente umana

 

 

                                            Dinamiche sacrificali o eroiche

 

Nella nostra cultura, latino-cattolica, viene proposto un modello dominante di comportamento  virtuoso che unicamente è di tipo sacrificale. Come vedremo nelle pagine sulla cultura, tutti gli indicatori di un comportamento socialmente 'normale' guidano l'individuo a ritenere che la propria proattività sia prossima allo zero. Eccede questa regola tacita, la condizione dove l'individuo si stia sacrificando o immolando per un bene sociale o ideale di qualche genere. In altre parole l'individualità e la proattività per propri scopi è tendenzialmente e tacitamente condannata. Per fare un esempio, pure Freud, nell'insieme dei suoi studi, portò ad associare il concetto di ego con quello di sbagliato, infantile, esagerato, immaturo ecc. Oggi però sappiamo che l'Ego è una importante parte della nostra identità e il suo equilibrio tra interiore ed esteriore nelle spinte verso la soddisfazione dei nostri bisogni reali è essenziale. Ci addentreremo in questi temi nell'apposito capitolo sulla cultura.

Perché ci interessa l'idea culturale di sacrificio? Perché è una pratica con diverse finalità, religiosa, spirituale, morale e non meno importante, relazionale; il filo conduttore dei vari ambiti in cui il sacrificio viene disciplinato è quello di dimostrare la propria rettitudine, la propria mancanza di malafede, la propria totale assenza di colpa, attraverso la rinuncia (come atto dimostrativo supremo). Nelle relazioni umane, quando una persona persegue uno scopo proprio, il suo comportamento ne diventa proattivo. A questo, consegue che agendo apertamente, il soggetto si scopre e chiunque può intuire o comprendere i suoi obiettivi. Nel momento in cui una persona si è sbilanciata e scopre le proprie carte può essere criticata, diviene criticabile, quindi esposta al giudizio sociale. Al contrario, quando una persona è passiva/sacrificale, pronta ad accettare passivamente la propria sorte, non esponendo i propri obiettivi, si tiene al riparo dal divenire accusata o criticata. Nella quotidianità, però, le persone hanno bisogno di esprimere e soprattutto agire dei bisogni personali. Per esempio soddisfare i propri gusti nel cibo, nelle relazioni  sentimentali e affettive, nel lavoro, nello sport ecc. Secondo il modello culturale latino-cattolico la persona dovrebbe vivere nella rinuncia, ma nella realtà non può farlo. Come conciliare questa dicotomia? Si sono trovate diverse strategie per mediare queste regole , con diverse legittimazioni facilmente osservabili. Per fare alcune considerazioni abbiamo preso ad esempio quattro aree del comportamento: l'alimentazione, l'amore relazionale, il lavoro e lo sport.

 

Nel mondo del gusto, sul cibo e alimentazione, secondo la tradizione si dovrebbe rinunciare alla golosità, ed essere moderati. I media spingono invece l'individuo fin da bambini a tuffarsi in cibi super-golosi. Il genitore è preso nella morsa tra regolamentare l'alimentazione ed essere quindi 'cattivo' e concedere questi cibi-coccola e fare il genitore 'buono'. Ne risulta che la mente vacilla in un conflitto senza pace che induce una duplice reazione. La prima è cercare di capire quanto fanno male i cibi e le mamme di solito si informano sulla qualità dei componenti, avvicinano i temi delle scienze dell'alimentazione e molte donne sviluppano anche una certa consapevolezza. Questo tipo sapere, nella sua divulgazione è molto contraddittorio e offre ottime teorie sia che tu voglia una dieta vegana, vegetariana oppure carnivora. Quindi nella letteratura alla portata di tutti, giornali e riviste, ci sono teorie e blogger per ogni mentalità.

Viene scelta la teoria più confacente e accettabile in famiglia, in modo di conciliare i gusti un po' di tutti e questo aiuta la madre a fare scelte più consapevoli e ad avere una maggior forza di persuasione verso i figli e la loro alimentazione. La seconda reazione, che si interpone e alterna alla prima, è chiudere gli occhi e far finta di nulla su certe posture alimentari non proprio sane. In parole povere, si cercano dei compromessi e sul resto si lascia correre. Chi più, chi meno, si gravita tutti in questo tipo di situazione. Da un punto di vista etico si mente a sé stessi e agli altri (ma non è grave). I bambini poi diventano grandi (e adulti) e mantengono  le proprie posture alimentari. Se guardiamo cosa compra la gente al supermercato è facile osservare quanto aberrata è la alimentazione media delle persone. Questo significa che l'individuo nel suo intra-personale modo di pensare, si da giustificazioni e trova dei compromessi con cui legittimarsi nell'acquisto di cibi spazzatura. Quindi, per la cultura tradizionale non si dovrebbe esprimere la golosità, ma si ha un forte bisogno di cibi golosi. La strategia adottata è mentire a se stessi, mangiare cose non sane, bere alcoli vari, fumare, insomma il peggio e poi pentirsi di aver esagerato e lamentarsi di avere delle somatizzazioni vittimisticamente. Per verificare questo basta anche osservare i rifiuti nei cassonetti, in particolar modo la raccolta del vetro: sempre colma di bottiglie di vini, superalcolici e birre. La complessa situazione che stiamo osservando ci indica in sostanza che non c'è una regola applicabile, ergo, si può ricorrere ai sotterfugi. La gente ha bisogno di sfogarsi, di placare la propria sete di soddisfazioni che non arrivano e il senso comune vittimistico incrementa questo stato di bisogno di sfogarsi. Obesità, disturbi alimentari e alterazioni somatiche di tutti i tipi stanno imperando come non mai, dalle gastriti ai colon irritabili, alle miriadi di allergie, alle alopecie e potremmo elencarne ancora molte. Sappiamo che la maggior parte dei disturbi ha una connessione alimentare e una psicologica, ma non si riesce a stabilire con precisione queste connessioni in quanto gli individui non sono in grado di operare una sperimentazione precisa sul proprio corpo, per ovvie ragioni di assistenza, di tempo e soprattutto di rigore nella ricerca. Per concludere, possiamo comprendere come l'aspetto sacrificale nell'ambito dell'alimentazione sia concentrato nel conflitto tra quello che sarebbe un atteggiamento alimentare sano (culturalmente basato sulla negazione) e la conseguente spinta a gratificarsi, amplificata dal senso di colpa per non aver potuto essere ligi. In parole povere, non dovrei mangiare cibo spazzatura, e siccome fa male, ne mangerò il doppio sentendomi in colpa.

 

Nell'ambito della legittimazione sull'amore,  secondo la tradizione bisognerebbe amare incondizionatamente solo la divinità, mentre la persona (marito, moglie, figli ed estranei) andrebbe servita (in modo diverso in base al genere) e la soddisfazione di un buon rapporto sessuale, sarebbe abbastanza deprecabile, come lo sarebbe ancor di più un amore travolgente e romantico (vedi Giulietta e Romeo - Renzo e Lucia – che sono perseguiti e minacciati). Il pudore ancora attivo in Italia intorno alla sessualità ci dice molto sulla spontaneità con cui viene vissuto e la grande confusione tra amore e possesso, ne esalta l'effetto. Paradossalmente l'amore sentimentale e romantico è stato idealizzato, prendendo spunto da tutti i testi sacri, mentre non è accaduta la stessa esaltazione per la sessualità. Ogni persona, se intervistata in merito alla qualità della propria sessualità, avrà definizioni come normale, buono e simili. Ma è noto a tutti come sia difficile parlare e condividere intorno a questo tema, un pudore smisurato ne relega la trattazione qualche volta solo ai più intimi. Nel complesso quindi siamo davanti ad una condizione culturale di repressione della consapevolezza intorno all'amore, cultura che invece ne idealizza e moralizza sia la condotta che gli effetti; come dire, l'amore è tutto, ma meglio non parlarne. La comunità, specialmente in questi ultimi decenni avanza timidamente una educazione sessuale ma in realtà attua a mala pena una istruzione basica sulla fisiologia dei genitali e una larga moralizzazione dell'atto sessuale con orientamenti eterogenei scelti dall'insegnante ma soprattutto non ragionati pragmaticamente in seno a quella complessità che definiamo amore. Attualmente l'unica drammaticamente completa guida alla sessualità, frequentata dai ragazzi di ambo i sessi sono i siti di pornografia. Per coloro che non avessero mai sentito come condividono i ragazzi intorno alla sessualità, basti comprendere che le azioni del rapporto sessuale sono diventate i cliché dei film porno, con tutta la terminologia del caso. Da un punto di vista esteriore quindi si maschera col silenzio ciò che non si può dire  e si fa ciò che la morale sociale condanna. Si salvano le ultime tendenze che con un approccio più rivolto al benessere individuale cercano di ridurre il peso della moralità collettiva in una mediazione, inserendo il benessere interiore legato ai rapporti amorosi, come un valore aggiunto di tipo sociale riconosciuto. La persona che sta bene interiormente giova alla società in quanto persona socialmente e umanamente più disponibile; ma nell'insieme la tendenza a evolversi della nostra cultura non sta progredendo molto. Per concludere, è facile osservare come in amore i comportamenti sacrificali siano alimentati e sostanziati dalla mancanza di consapevolezza e orientamento. Nella confusione del non-sapere, l'individuo sposta la popria focalizzazione su obiettivi a risultato certo, e il sacrificio eroico viene venduto culturalmente come una garanzia di qualità.

 

Nel mondo del lavoro i meccanismi vittimistici ed eroici sono spinti all'apoteosi, bisogna lavorare e sapcrificarsi per l'amore, i soldi e la famiglia. Per la maggior parte delle persone, il lavoro rappresenta la massima frustrazione e stato di sofferenza, anche se spesso non viene nemmeno cognitivizzato a livello cosciente. Questa rappresentazione drammatica spesso non è esplicita, ma emerge rappresentata dall'idealizzazione del denaro come fattore che, se ve ne fosse a sufficienza, permetterebbe la felicità. Nell'insieme il lavoro è visto ancora come un dovere e come un obbligo opprimente di tipo dogmatico. Trovano una eccezione a questa rappresentazione negativa, nelle fasce di età inferiori ai 35 anni (mediamente) che ancora sono intente a realizzarsi in esso e tentano di produrre in questa parte della loro vita dei dinamismi di soddisfazione. E' curioso osservare che quando si chiede ad una persona se le piace il proprio lavoro  la risposta è quasi sempre si, e ne seguono affermazioni rappresentative del tipo mi piace imparare e crescere. Poi, se il dialogo prosegue, partono quasi sempre una certa quantità di lamentele profonde e inconsolabili che sfociano in un assetto assolutamente vittimistico. In Italia la cultura del lavoro è ancora una volta incagliata in una prospettiva ristretta che lo pone come un dovere, del quale sentirsi oppressi. Le strategie per mediare a tale ristrettezza tradizionale si sono evolute in diversi modi. Ogni persona oggi può ambire a un buono stipendio o una buona carriera. Ma nella tradizione, il lavoro ha da essere una espressione di dedizione e sacrificio, pertanto non sarebbe positivo avere delle ambizioni. Si è mediato, inserendo l'aspirazione come aspetto legittimo che scaturisce dal sacrificio di quanto un lavoratore si sia impegnato a studiare, oppure quanti anni di impegno spassionato ha espresso nel proprio posto di lavoro. Fino a pochi anni fa nelle aziende vigeva ancora il nonnismo e in qualcuna c'è tutt'ora (visto coi miei occhi) anche se a parole ogni persona è pronta a giurare che non sia così. Scherzi da bullismo, umiliazioni e varie angherie sono ancora riservate ai più giovani e anche agli stranieri. Spesso gli imprenditori spendono molto denaro per la formazione professionale e umanitaria dei lavoratori, le istituzioni hanno fatto moltissimo e i sindacati hanno lottato molto per ottenere i riconoscimenti minimi di dignità del lavoratore (e ancora c'è del lavoro da fare); ma la mente e la cultura si riproducono in un assetto che è ancora molto conservatore. Con il crescere delle nuove generazioni sta cambiando tutto, ma le dinamiche di potere e il vittimismo permangono. Hanno cambiato la forma adattandosi ai nuovi standard del comportamento educato, divenendo meno palesi ma più spietate e competitive. In questo quadro, è ancora fortemente attivo il concetto di valore associato a quanto ci si sacrifica, e l'impegno viene visto e riconosciuto come tale solamente se è collegato ad un palese atteggiamento di sacrificio (sugli orari piuttosto che sulle esternazioni di sofferenza). Se una persona è dotata, e non lamenta il proprio sacrificio, non viene riconosciuta e la propria dote , venendo definita fortuna, non ha peso nel quadro del valore aziendale.

 

Nell'ambito sportivo la competizione come dinamica sacrificale è invece totalmente legittimata sia dalla collettività sia dalle istituzioni religiose. Questa eccezione è legata al fatto che sia in epoca antica, classica che nel medioevo, sullo sport si sono incanalate le valenze di 'prestazione' eroica e di eroismo come gerarchia sociale, palliativo o sublimazione della soddisfazione dell'ego. Inoltre la particolare assenza di questo tema nei sacri testi ha tenuto libera  l'area eroica (sportiva anche se anticamente non esisteva il concetto moderno di sport) da costrizioni morali. Rimane il fatto, molto importante, che la competizione sia un assieme di comportamenti in cui la negazione reciproca del vincere è, e resta, perfettamente coerente con lo spirito sacrificale e negatorio della cultura latino-cattolica. Chi vince certifica l'inadeguatezza di chi perde, sancisce anche il valore solitario ed sacrificale del vincitore che, oggi ha vinto, ma non vincerà in eterno e cadrà nella stesa trappola che lo ha illuso (effimera condizione umana). La vittoria è gratificante finché sei solo tu a vincere. Troviamo questo processo nella metafora di Cristo che vince la morte, legittimato dal potente sacrificio della propria vita. Maggiore è il sacrificio, maggiore è il plauso sociale (nella cultura latina)

 

Nella nostra cultura, che cosa viene promosso e proposto come stile di vita socialmente accettato? Per rispondere a questa domanda dobbiamo riferirci alla filosofia di base della cristianità. Fede, speranza, e per dirla tutta, la delega alla divinità che interceda e ci aiuti. In sostanza tutti parametri che, come unica condizione, inducono a rendersi passivi perché non è socialmente positivo avere ambizioni per se stessi (egoismo); rendersi passivi perché non meritevoli di ottenere soddisfazioni (peccato originale). In un concetto semplificato la virtù come esito della negazione dei bisogni. Come stiamo intuendo, in ogni caso, l'aspetto che qui andiamo a evidenziare è che il valore della persona e la fede che dovrebbe esprimere secondo il modello culturale vigente, passano attraverso la negazione della individualità. Il principio che guida le espressioni culturali a cui riferirsi, è la sfiducia nelle proprie abilità, a meno ché non si tratti quelle sacrificali. In altre parole, il proprio agire costruttivo e assertivo verso propri obiettivi, non viene visto come una dimostrazione di valore apprezzabile agli occhi di chi valuta (la divinità, la comunità, l'Altro), anzi, semmai è più probabile che sia interpretato come un fattore di superbia, in quanto esprime una qualche ambizione. Dobbiamo riconoscere che negli ultimi decenni questo assetto sta mutando un poco, ma non ancora sufficientemente nel profondo di una cultura radicata. Nelle diverse culture e discipline, il sacrificio e la negazione hanno assunto molteplici significati, logici e strategici, con i più disparati scopi. Si pensi al Samurai, ai monaci guerrieri Shaolin o all'impegno indomito dei super eroi. Questi personaggi straordinari sono votati alla causa, servi attivi di uno scopo superiore, sono persone che rimangono persone e cambia solamente che il loro valore, non è dato però dal sacrificio inteso come stato di rinuncia/negazione di sé, ma come risultati delle performance raggiunte e del beneficio sociale acquisito. 

 

Tutti conosciamo le forme eroiche internazionali, ma quali sono le figure che similmente rappresentano gli eroi della nostra cultura italiana?  I nostri eroi sono i santi e qualche sparuto eroe laico.

I santi hanno tutte le carte in regola per essere le figure eroiche in quanto incarnano quel tipo di narrazione intorno alla propria vita come modello da seguire, le proprie gesta come comportamenti straordinari, i propri scopi come sublimi e perfetti, le proprie scelte come assolutamente motivate e ineccepibili, la la loro morte come esito di una vita immolata alla causa. I santi, i martiri, gli studiosi, i cavalieri, le vittime, le donne, i bambini, nella loro rappresentazione valoriale ed etica, sono caratterizzati dal negare le proprie spinte vitali di soddisfazione, per sviluppare invece un obiettivo moralmente superiore: il bene (come unica soddisfazione).

 

Che cosa hanno gli eroi non italiani di diverso dall'idea eroico-sacrificale latino-cattolica? La grande differenza:

  • sta nel riconoscimento sociale, legato al fatto che sono proattivi e non passivi; sta nel fatto che il loro valore è legato a ciò che fanno e e le loro abilità e non al fatto in sé di sacrificarsi e negarsi;

  • sta nel fatto che sono spesso immortali ma operano alcune volte anche nell'ombra, in sordina;

  • sta nel fatto che sono persone normali ed evolvono in eroi.

Al contrario dei modelli eroici latini, essi si affermano nella collettività come persone di valore e ambiziose di dare sempre il meglio e di più, e per questo, la collettività li riempie di riconoscenza. Gli 'eroi' della nostra cultura, invece, i santi, riflettono l'idea di sacrificio unicamente rivolto alla divinità e basta, la loro proattività è orientata a dimostrare gli errori e i peccati delle persone, mostrare loro come sacrificandosi e negando la propria individualità possano piacere a dio. Non ultimo fattore importante, divengono socialmente di valore e santi, unicamente dopo essere morti. Sostanzialmente le due modalità di scopo e sacrificio riflettono un obiettivo opposto. Nella altre culture l'eroe opera per l'uomo comune e la sua possibilità di esistere, mentre in quella latino-cattolica gli eroi operano per dimostrare che l'uomo comune sbaglia e pecca.  Nella cultura globalizzata contemporanea occidentale, il sacrificio ha un significato che si differenzia quindi, è certamente universalmente riconosciuto come un valore perché è la dimostrazione di capacità e soprattutto di controllo (ma come abilità e non negazione). Nello stesso tempo, esso è anche sinonimo di conseguimento di obiettivi, mete, propositi e ambizioni (modello ebraico). Le dinamiche sacrificali non rappresentano l'intero panorama delle soluzioni culturalmente proposte all'individuo per guidarlo a superare e/o compensare le proprie difficoltà, ma sono tra le più diffuse.

 

Per semplificare, ciò che culturalmente viene comunicato nella educazione latino-cattolica è un ricatto, secondo il quale se non si agisce rispettando il paradigma, le conseguenze saranno pagate con l'assenza affettiva o la privazione di un determinato bene o valore. Questo attiva un particolare stato di paura semi cosciente, un sentimento, che induce la persona ad adottare il comportamento proposto. Ecco alcune tra le più diffuse associazioni di questo tipo:

Se non mi sacrifico non imparo

Se non mi lavo i denti con quel dentifricio allora mi vengono le carie

Se non prego non vado in paradiso

Se non compro il disinfettante di quella marca mi ammalerò

Se non compro quel giocattolo a mio figlio non sarà felice

Se non prendo un buon voto avrò una vita infelice

Se non lavoro duramente perderò il posto

Se non mi pento non otterrò il perdono

Se non mi dedico completamente al partner smetterà di amarmi

Se non mi telefona io non valgo, allora forse non mi ama

 

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